Vittorio Gaddi

27 Settembre 2017

“Il Collezionista” è una rubrica a cura di Gea Politi e Giulia Gregnanin. Strutturata in una serie di interviste alle personalità che costituiscono il collezionismo italiano, è un campionamento di attitudini, gusti, visioni che mostra la varietà e le peculiarità delle collezioni.

Gea Politi: Vittorio, come nasce la tua passione per l’arte contemporanea?

Vittorio Gaddi: Nasce da mia madre, era pittrice dilettante. Mi portava a visitare mostre di grandi artisti come Mirò e Picasso. Avrò avuto circa diciotto anni e mi sentivo in particolar modo attratto dai lavori di artisti come Fontana e Burri, che vidi per la prima volta alla galleria Falsetti di Prato, che all’epoca aveva uno spazio a Marina di Pietrasanta.
Poi nell’82 feci il mio primo viaggio a Venezia e andai a visitare la Biennale.

GP: Cosa ti attraeva?

VG: Avevo un’attrazione verso l’arte contemporanea a livello primordiale e istintivo, senza ambizioni collezionistiche.

GP: Qual è la prima opera che hai acquistato?

VG: Quando acquistai la casa in campagna, che oggi è la sede della collezione, andai a trovare Giò Pomodoro al suo studio e comprai direttamente da lui una scultura e un disegno rappresentante un grande sole – credo fosse il ’93. Poi con il tempo ho spostato la scultura nel giardino, perché non la vedevo molto con il resto della collezione, che è prettamente contemporanea.

Giulia Gregnanin: Da Giò Pomodoro come sei giunto ad acquistare le ultime generazioni?

VG: Nel ’97 conobbi Bruna Aickelin della galleria Il Capricorno di Venezia. Quando le feci visita era in corso una mostra di dipinti di Vanessa Beecroft. Mi disse che erano stati tutti venduti, ma grazie a un evento fortuito ne rimase uno che subito acquistai. Quello è stato l’inizio della collezione, poi con Bruna si è creato un rapporto di amicizia. La mia prima guida spirituale è stata lei.

GG: La collezione è interamente collocata a Vorno?

VG: Le opere sono in parte a Vorno e in parte nel mio studio notarile. La casa di Vorno, acquistata inizialmente come residenza estiva, ora è adibita a spazio espositivo per la collezione. Qui non viviamo. E, d’altra parte, nella mia casa non ho opere. Ho altri oggetti che non considero parte della collezione, come i dipinti di mia madre che sono più ricordi.

GG: Sembrerebbe che tu utilizzi la tua dimora come una sorta di camera di decompressione. Vai spesso a Vorno?

VG: A Vorno non vengo frequentemente, ma neanche di rado.
Secondo me è bene un po’ di distacco, che ti fa apprezzare di più la bellezza dei lavori.

GP: In più occasioni hai dichiarato una predilezione per gli artisti stranieri. Come mai questa esterofilia?

VG: In mia difesa, l’ultima opera che ho acquistato è di un’artista italiana, Giulia Cenci. Ma è vero, la grande maggioranza di artisti in collezione sono stranieri. C’è chi dice sia provinciale prediligere artisti stranieri. Io dico che è provinciale acquisire solamente italiani, perché fuori c’è il mondo. Anche per un rapporto numerico gli artisti internazionali sono molti di più di quelli italiani. Se un artista mi piace può essere di qualsiasi paese del mondo, non ho preferenze. Ecco, non trovo giusto dire di sostenere l’arte italiana. Per me ci sono gli artisti e basta.
Un criterio di scelta che utilizzo, e che penalizza gli italiani, è cercare di selezionare artisti che non siano fenomeni passeggeri ma che con il tempo vengano riconosciuti. Non tanto per il riconoscimento di mercato ma più per quello della critica, che non sempre corrisponde al valore economico. Di regola scelgo artisti che hanno una storia espositiva, anche se giovani, e che sono rappresentati da solide gallerie. Su un libro di Angela Vettese mi ricordo di aver letto “bisogna comprare non con il cuore ma con il cervello”. Io medierei questo concetto: deve esserci il cervello ma anche il cuore.
Oggi di artisti bravi ce ne sono tanti. La vocazione artistica ha fatto la strada contraria della vocazione religiosa: non c’è più nessuno che abbia la vocazione religiosa ma ce ne sono tanti, troppi, che hanno la vocazione artistica.

GP: Nel 2012 in un’intervista hai affermato che gli artisti italiani tendono a emulare quello che accade all’estero. Credi che oggi la situazione sia cambiata?

VG: Devo dire di sì. Indubbiamente in Italia si sta trovando un linguaggio proprio, basti guardare l’ultimo Padiglione Italia alla Biennale di Venezia.
Con tutti i limiti ovviamente, è difficile fare qualcosa di completamente nuovo. Credo oggi ci sia più autonomia e autenticità.

GP: Quindi, andando per ordine, prima ti lasci colpire dall’opera e poi guardi la storia espositiva dell’artista, il curriculum.

VG: Sì, anche se solitamente mi avvicino a un artista che ho già avuto l’opportunità di vedere da qualche parte, magari sulle riviste – e da qui l’importanza delle riviste come Flash Art, sia per quanto riguarda i contenuti sia per le pubblicità, che spesso sono un segnale dell’importanza dell’artista –, in galleria, in fiera, su internet.
Tendenzialmente cerco di non acquistare il lavoro secondario di un artista importantissimo, ma l’opera iconica di un artista meno celebre ma comunque valido.
Poi, ovviamente, una volta individuati gli artisti che mi interessano devo individuare i lavori che mi piacciono.

GG: Questo tuo metodo per selezionare gli artisti è molto consapevole del sistema dell’arte e mi ricorda Spectre of Evaluation (2008), uno schema realizzato da Thomas Hirschhorn (tra l’altro uno degli artisti presenti nella tua collezione) in cui l’artista evidenzia come siano gli attori del sistema – dal critico al curatore, dal direttore di museo allo storico dell’arte, dal collezionista al gallerista –, e le relazioni che si innescano tra loro, a determinare il valore dell’opera.

VG: Tra l’altro spesso il sistema si regge su sovrastrutture inconsistenti, come le liste d’attesa, che spesso sono un bluff. All’inizio ho faticato a ottenere certi lavori. Ad esempio non ho mai comprato Marlene Dumas perché nessuno mi permetteva di acquistarla e ora è troppo costosa.

GP: Per le opere di Dumas bisognerebbe esplorare il mercato secondario. Acquisti più spesso in galleria o in asta?

VG: Di solito non compro nulla sul mercato secondario e nemmeno in asta. Acquisto quasi esclusivamente in galleria.

GP: Ti sei mai ostinato sull’acquisto di un’opera?

VG: Generalmente no, se non posso ottenere un’opera cambio obiettivo. Mi piacciono moltissimi artisti quindi “se non ne arriva uno ne arriva un altro”, purché sia qualcuno che realmente mi piace.

GG: Hai mai acquistato performance?

VG: No. Ho comprato Anne Imhof, ma non una sua performance.

GP: Ti è mai capitato di voler rivendere?

VG: Di regola non rivendo nulla. Ho fatto un’eccezione l’anno scorso perché la nostra attività, che è legata all’immobiliare, ha particolarmente risentito della crisi. Quindi, se volevo continuare a divertirmi a certi livelli dovevo fare un sacrificio. Ho dunque messo all’asta un’opera di un noto artista americano da Phillips a New York. Anche se devo dire che non era l’opera che amavo di più. L’amavo sì. Ma per certi lavori non l’avrei mai fatto.

GG: A quali lavori sei particolarmente affezionato?

VG: In linea di massima a tutti. Poi ovviamente ci sono quelli che amo un po’di meno, ma non lo dico.

GP: Qual è il primo artista straniero che hai incontrato?

VG: Forse Elizabeth Peyton o Matt Mullican. Sicuramente c’è qualcuno che ho incontrato anche prima, anche se in questo momento non saprei indicarlo con esattezza.

GP: Cosa hai di Peyton? Non deve essere stato facile acquistarla.

VG: Un ritratto del principe Harry. Avevo un rapporto particolare con Georg Kargl di Vienna, il quale me l’ha venduta ad un ottimo prezzo. Kargl, tra l’altro, è la prima galleria straniera con cui ho avuto contatti.
Ecco, fra i primi artisti stranieri incontrati c’è Roni Horn. Lei è stata la prima in assoluto.

GP: Hai un budget che dedichi all’arte?

VG: No anche perchè spesso lo sforerei. Ogni tanto mi rendo conto di dovermi fermare un momento.

GP: E per quanto riguarda le fiere? Quali sei solito frequentare?

VG: Acquisto molto alle fiere ma ultimamente preferisco le gallerie. Le fiere sono disorientanti e iperaffollate. Vado sempre ad ArtBasel, Artissima e Miart. Anche Frieze cerco di non perdermi, ma negli ultimi anni ho preferito Fiac.

GP: Durante l’anno organizzi viaggi appositi per acquistare? Ti sposti anche con altri collezionisti?

VG: Sì viaggio, anche se spesso mi faccio inviare in anticipo dalla galleria le immagini della mostra – già da quelle molte cose si intuiscono. Poi mi è capitato spesso di incontrare in giro altri collezionisti, come Mauro De Iorio, ad esempio. Lui è un vulcano.

GP: Cosa ne pensi del collezionista come curatore?

VG: Credo sia naturale che la figura del collezionista possa sfociare in quella del curatore. A meno che non sia quel tipo di collezionista che si affida ad altri.

GG: Come gestisci il riallestimento della collezione? Hai mai pensato di affidare la curatela a un curatore esterno, anche solo per sperimentare una nuova formula?

VG: Quando sto per acquistare un’opera inizio a pensare a dove potrei collocarla. Ad esempio l’acquisto recente di un’opera di Nairy Baghramian – che mi sarà consegnata tra poco – mi sta causando non pochi problemi. All’inizio pensavo di mettere il lavoro in camera da letto al primo piano, ma quando ho constatato che pesa quasi di 400 chili ho dovuto cambiare idea e pensare a una diversa collocazione.
Poi spero che le opere dialoghino sul piano estetico. Il mio allestimento non riguarda un assonanza di significati, non mi interessa. Anche per questo non mi appoggio a curatori esterni. Voglio essere io il dominus, almeno in questa fase creativa me la voglio riservare.

GP: Quando ero bambina, mi colpiva particolarmente visitare le mostre di Saatchi. Queste, che erano le prime mostre in galleria riflettevano particolarmente la sua psicologia. Nella tua collezione quanto c’è di te e della tua psicologia?

VG: Credo che la collezione vista globalmente si possa considerare un ritratto interiore, un’esternalizzazione della proprio personalità, ma razionalmente non saprei dirti cosa c’è. In qualche maniera la collezione diventa un’opera.

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