Q-Rated: Performance Pirelli HangarBicocca / Milano di

di 30 Aprile 2019

L’ultimo decennio ha visto un aumento costante del dibattito sulla performance nel mondo delle arti visive. I maggiori punti di discussione hanno riguardato la ridefinizione dei termini che caratterizzano la pratica artistica – in seguito all’integrazione di discipline quali la danza, il teatro e il video – e l’analisi delle metodologie e delle condizioni in cui la performance viene prodotta. Con il consolidamento di ideologie neoliberali e di nuovi sistemi digitali (quali ad esempio il riconoscimento biometrico), la performance è sempre più riconducibile alla produttività economica, sia in ambito finanziario che culturale, e al controllo sociale – più che a una pratica artistica dalle premesse politico-estetiche 1.Pertanto alcuni dei dibattiti più recenti gravitano verso le scelte, pressoché etiche, con cui la performance è inclusa all’interno delle istituzioni. Queste problematiche sono state approfondite nel workshop organizzato dalla Quadriennale di Roma, che ha coinvolto giovani artisti e curatori italiani impegnati nell’ambito della performance. I tutor selezionati per il workshop sono stati Marie de Brugerolle (curatrice, storica dell’arte e docente presso l’ENSBA Lyon), l’artista Cally Spooner e Richard Birkett (capo curatore dell’ICA di Londra). Il workshop si è svolto in tre giorni e ha avuto luogo al Pirelli HangarBicocca, un punto di riferimento tra le istituzioni d’arte contemporanea in Italia, quindi luogo ideale per aprire un dibattito critico su come la performance possa manifestarsi in ambito istituzionale. I tre giorni di workshop hanno alternato teoria e pratica, favorendo uno scambio d’idee tra i partecipanti. Nel corso della prima giornata la performance di Marie de Brugerolle ha invitato ad uscire dall’edificio dell’HangarBicocca per entrare in A16 (1999), un enorme elastico di tessuto blu realizzato dell’artista Fabien Lerat.

 

Attraverso questo formato sperimentale, de Brugerolle ha introdotto la sua esperienza di storica dell’arte, fermamente ancorata alla ricerca degli oggetti e al loro statuto, proseguendo poi con una genealogia di storie e incontri con artisti che l’hanno spinta a voler ridefinire il termine performance. Ad esempio, durante il suo lavoro con l’artista Guy de Cointet, de Brugerolle iniziò a notare che la definizione di “performance art” originariamente coniata negli anni Sessanta risultava limitante 2. De Cointet utilizzava oggetti solitamente associati al teatro (palco, oggetti di scena, attrici e attori, costumi e un copione) senza però realizzare uno spettacolo teatrale. Questo approccio portò de Brugerolle a distanziarsi dall’idea di performance come un medium – andando oltre la concezione modernista di Greenberg che lega la pratica artistica al suo supporto – e a coniare il termine “post-performance”3. La sua intenzione non era quella di etichettare opere prodotte in un certo periodo storico, né di raggrupparle secondo un certo stile, ma di creare un termine ombrello per pensare alla performance come pratica aperta. La “post-performance” è slegata dal medium, permette ad altre forme performative di emergere aprendo nuovi percorsi per il ripensamento dell’ontologia degli oggetti. Citando il suo articolo “post-performance future”, tra le radici etimologiche del termine performance troviamo il francese perfournir, un verbo che significa “finire una forma, dare forma”, e l’inglese furniture che conduce a oggetti d’arredamento 4. Inoltre, il termine serve per rivedere i modi in cui la performance viene presentata dalle istituzioni d’arte. Secondo de Brugerolle viene spesso usata “in maniera dozzinale per distrarre il pubblico”5. Facendo l’esempio delle performance di Andrea Fraser, che provocano delle sottili interruzioni nei maccanismi di divulgazione e mediazione culturale nei musei, de Brugerolle suggerisce di lavorare con l’istituzione in maniera strategica, invece di volerla evitare o abolire, e di estendere il suo potenziale – che ritiene sia quello di dare libertà agli artisti. Secondo De Brugerolle, le istituzioni d’arte pubbliche sono il luogo in cui l’arte può agire liberamente poiché lavorando con le regole è possibile conoscerle, rivedere le convenzioni, mantenendole in movimento. Il secondo giorno, Cally Spooner ha collocato la performance all’interno di un contesto più ampio.

Partendo dal libro Perform or Else di Jon McKenzie, l’artista ha spiegato che con l’aumento di sistemi informatici digitali e di mercato autonomo diversi tipi di performance (culturale, organizzativa e tecnologica) s’intersecano, creando pressioni potenti e contraddittorie che agiscono sulle strutture del potere 6Spooner ha ricorso all’esempio inquietante del sistema di credito sociale implementato in Cina: una sorta di punteggio dato a ogni cittadino, calcolato attraverso l’analisi delle azioni e interazioni sui social networks. Questo sistema basato sulla misurazione della performance del sé tramite tecnologie biometriche, permette di classificare i cittadini e di monitorarli costantemente, nonché di influenzarne i comportamenti e controllarli. Non a caso, Spooner ha fatto riferimento a Sorvegliare e Punire di Foucault, producendo grandi intrecci tra teoria e pratica, e ha dichiarato che oggi il regime della performance ha sostituito quello della disciplina come metodo di controllo; o per citare McKenzie: “La performance sarà per il Ventesimo e il Ventunesimo secolo quello che la disciplina fu per il Diciottesimo e Diciannovesimo”7. Dopo un’introduzione apparentemente slegata dal mondo dell’arte, Spooner sferra una critica circa l’aumento della presenza di performance in istituzioni, specialmente negli Stati Uniti, e verso l’economia della presenza su cui queste ultime spesso fanno affidamento. L’evento live della performance, con la sua promessa di una presenza non-mediata e di incontro autentico con altre persone, viene spesso utilizzato come mezzo d’intrattenimento per aumentare la frequenza di visitatori, e per la continua misurazione e produzione di profitto. “Quali performance possono essere al di fuori di questo formato istituzionale?”, chiede l’artista. Sebbene non possa offrire una risposta immediata né una fuga da questo regime, Spooner sostiene che sia necessario conoscere l’habitat e le condizioni del suo sviluppo per scoprire la potenzialità di un cambiamento. Una delle strategie dell’artista è modificare continuamente il suo metodo di lavoro o ciò che produce, e di concentrarsi su un cambio d’attitudine nella quotidianità. In campo istituzionale, riferendosi a Claire Bishop e divergendo da quello che de Brugerolle aveva dichiarato il giorno prima 8, Spooner sostiene che gli spazi non vanno curati ma occupati, in una sorta di assemblea pubblica; così performando, in quanto artista istituzionale, una sorta di auto-sabotaggio. Richard Birkett ha chiuso i tre giorni concentrandosi sul ruolo dell’istituzione d’arte, chiedendo cos’è un’istituzione, che cosa s’intende per istituzionalità, per poi considerare l’istituzionalizzazione della performance e la performance dell’istituzionalità, performando lui stesso un approccio di decostruzione della comprensione sintomatica di questi concetti, per mostrare che l’arte contemporanea in sé agisce già come un’istituzione 9.

Considerando il duplice significato di performance, in senso politico-estetico e riferendosi alle prestazioni in ambito lavorativo – prendendo come riferimento le teorie del virtuosismo di Paolo Virno – Birkett riconosce la performance come un metodo di lavoro, uno strumento per misurare le interazioni tra il pubblico e le istituzioni, in grado di consentire a un’istituzione di vedere e ripensare come funziona un’istituzione stessa. Diversi sono i casi studio proposti da Birkett: dalle manifestazioni di protesta del gruppo di attivisti Decolonize This Place al Whitney Museum di New York, che nel 2019 ha richiesto le dimissioni del vice-presidente del consiglio di amministrazione del museo 10; alla lecture performance Sand in the Eyes (2018) di Rabih Mroué, fino al video Self Capital (2009) di Melanie Gilligan in cui una donna che interpreta “l’istituzione d’arte” entra in un’istituzione (l’ICA di Londra) per farsi curare da una sua copia. Questi esempi mettono in luce come la performance possa coinvolgere il pubblico in un processo autocritico, di scambio della conoscenza, in ‘un’istituzione pensante’. I tre giorni hanno suscitato la consapevolezza di un bisogno di una performance dal significato aperto, più etica e meno narcisistica, che permetta a nuove forme sociali di collettività, conoscenza, e nozioni di cura di manifestarsi.

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Giulia Civardi