Intervista pubblicata originariamente in Flash Art Italia no. 118, 1984 e ripubblicata nella raccolta “Flash Art Speciale 41 Anni” no. 271, 2008.

Giancarlo Politi/Helena Kontova: Lavori contemporaneamente su più quadri?
Enzo Cucchi: Non riesco mai a lavorare su un quadro solo, su una sola idea.
GP/HK: In genere sono una serie o un medesimo soggetto?
EC: Diventano tutti un po’ una famiglia, una covata. Io lavoro a gruppi. In genere alcuni quadri nascono assieme, legati a un progetto.
GP/HK: Hai quindi un’idea precisa?
EC: Con progetto intendevo un’occasione per dipingere un gruppo di opere, come può essere una mostra personale. Io posso lavorare solo quando ho la testa completamente vuota. Il problema sono tutti i fantasmi che hai intorno, ed è un piccolo problema quotidiano. Lavori sempre attorno a te, diventa un fatto fisico, un po’ come un pollaio, un luogo di battaglia. Un’idea di grande economia. L’arte è un’idea di economia, economia spirituale. Non si può discutere sull’arte o guardarla. Come guardi un pugile? Devi guardare come si muove e come comincia a ronzare attorno alle cose mediocri di tutti i giorni, come si muove in un piccolo territorio. Che poi diventa una proiezione all’esterno. È un problema di meraviglia.
GP/HK: Perché queste tue immagini che nascono qui ad Ancona dalla meraviglia di cui parli, hanno tanto successo in tutto il mondo?
EC: È un problema di leggenda! Il mondo in crisi deve aggrapparsi a un sano portatore di immagini. È normale che sia il pittore ad avere questo problema. Ricordi Coppi quando correva e c’era la gente che impazziva? È la stessa cosa. Anche se il problema di Coppi, l’anima di quell’uomo, come si fa a descriverli?
GP/HK: Tu sei molto curioso delle diverse culture eppure sei molto spesso qui ad Ancona. Perché non ti trasferisci in Oriente o in USA?
EC: Cosa vado a fare? Un artista non ha necessità di niente. Un pugile lo puoi costruire, se vuoi: invece non è vero. È un talento naturale che puoi abbellire e raffinare. Ma prima è un talento naturale, è un’energia che c’è o non c’è.
GP/HK: Ti piace New York?
EC: Sì, ma niente di più. E quando devo andarci le cose che mi interessano di più sono quelle al di fuori dall’arte.
GP/HK: Magari gli incontri di pugilato?
EC: Sì, anche. Ti ho detto che sponsorizzo un pugile qui ad Ancona?
GP/HK: Perché ti interessa la boxe?
EC: Perché i pugili e le prostitute in questo secolo sono gli unici rappresentanti selezionati spiritualmente, in loro c’è una selezione sana della vita, delle difficoltà. Loro sono i veri restauratori morali.
GP/HK: Quando dipingi cosa senti?
EC: Niente. Sono un falco, una tigre. A Roma, quando dipingevo, la gente diceva: guarda la tigre di Torpignatta. Per fare un quadro occorre velocità, forza: non è altro che un problema fisico, di essere in forma, a posto. Un quadro lo fai quando stai bene. Quando hai mal di denti non puoi pensare ad altro, e diventa la tua ossessione. A me lo studio fa schifo, spesso non ce la faccio più a stare qui dentro, poi mi alzo di notte e vengo qui senza far niente, capisci?
GP/HK: Non ti fa dunque piacere dipingere?
EC: Ma no, è una cosa orribile.
GP/HK: E allora perché lo fai?
EC: Perché non riesco a pensare a un’altra cosa. Perché c’è un problema di meraviglia: fai una cosa perché vuoi assolutamente quella cosa. Fare un quadro è una cosa ossessiva, come un vizio assurdo, come un grande pregiudizio.

GP/HK: Quando hai cominciato a fare l’artista?
EC: Quando ci siamo incontrati, io e te, avevo vent’anni. A diciott’anni ho partecipato a una mostra ad Ancona. Vinsi il primo premio con un quadro figurativo intitolato Combattimento tra dei ed eroi ma non pensavo di fare l’artista, pensavo a tutt’altro, come ancora oggi. Lavoravo presso un vecchio restauratore, ma in realtà andavo dietro alle ragazze.
GP/HK: Sei molto legato alla tua terra?
EC: Legato no, perché io non la guardo nemmeno. Mi interessa a livello di razza, di sapore, di presenza, ma non per guardarla.
GP/HK: Chi è stato determinante per il successo della Transavanguardia?
EC: Fred Buscaglione e Fausto Coppi! Come sapore per me, personalmente. Poi, se andiamo ad analizzare, è normale che vi sia stato il mercante che ci ha dato una mano, che ha avuto coraggio. Ma questi due personaggi mi hanno dato il sapore delle piccole cose di tutti i giorni e attraverso di loro un giorno ho capito che la mia pittura era diventata qualcos’altro.
GP/HK: Ma in senso concreto?
EC: Noi ci conosciamo da sempre: ho incontrato questi artisti a Roma quando ho fatto la prima mostra da Giuliana De Crescenzo, nel 1978. Checco (Clemente) e Sandro (Chia) vivevano a Roma, io ad Ancona, ma spesso anch’io ero a Roma. Achille (Bonito Oliva) aveva fatto vedere in giro alcuni miei disegni e loro dicevano scherzosamente: “Chi è questo presuntuoso che non viene nemmeno alle nostre mostre?”. Poi ci siamo conosciuti alla mia mostra ed è nata questa amicizia. Con Sandro abbiamo fatto dei disegni a quattro mani coinvolgendo anche Achille Bonito Oliva. Lì nacque anche l’idea di un libro, una cosa strana, senza nomi, non personale: raccogliere ciò che era nell’aria, questa situazione impalpabile ma di cui si avvertiva l’atmosfera.
GP/HK: Lo scorso anno hai realizzato una scultura insieme a Sandro Chia e una volta mi hai raccontato di aver fatto un’opera con Mario Merz. Cosa significa lavorare in due a un’opera? Comporta frustrazioni? È necessaria una forte autodisciplina oppure si lavora in totale libertà come facendo un’opera da solo?
EC: Penso che tutto sia possibile quando c’è la disciplina: una disciplina spirituale, la più feroce, quella che permette di dare un giudizio sul mondo. Fare un’opera a quattro mani diventa veramente l’omaggio a un’idea; all’interno c’è questa disciplina e questo eroismo di trovare una strada, non dico comune, ma di saper sdraiarsi, di saper riposare.
GP/HK: In che senso riposarsi?
EC: È come pensare a un museo. La gente si preoccupa perché nei sotterranei ci sono moltissimi quadri che non vengono esposti. Invece è giusto così perché ci sono quadri che non riposano, non hanno un sonno buono. Verranno alla luce quel giorno che saranno addormentati, e allora il mondo li potrà vedere.
GP/HK: Nel lavoro ti fai aiutare da qualcuno?
EC: No, lavoro da solo, non in solitudine però, spesso quando lavoro c’è molta gente che mi guarda. Questo mi diverte.
GP/HK: Che differenza c’è per te tra il lavorare su un’opera grande o piccola?
EC: Il quadro piccolo è un fantasma e lo lavori tra le mani; è una cosa che non controlli, è il prolungamento delle braccia. Il quadro grande è veramente come una quadriglia (quattro cavalli eccezionali) e c’è questa incredibile meraviglia di dover tenere saldamente le briglie, di controllarla, di stabilire un rapporto col tempo. Per questo prima parlavo di energia, e di economia spirituale, tua, personale.
GP/HK: Ti capita di dipingere sopra un altro quadro?
EC: Sempre. Non solo dipingo su un altro quadro, continuo a fare sempre gli stessi due o tre quadri; si continua a dipingere lo stesso quadro, lo stesso no, ma due o tre, perché un pittore non ha mai più di due o tre idee circa il suo lavoro. È una ossessione su due o tre problemi.
GP/HK: Chi sono gli artisti del passato che ami?
EC: Per un fatto di tranquillità, di serenità, mi viene in mente Masaccio, mi dà il sollievo di capire come questo artista non avesse niente in testa anche lui, solo due o tre idee, sempre quelle, così banali ma così incredibili, così legate all’universo, come l’idea di mettere un uomo per terra. Parlando di questo maestro del passato, mi interessano queste piccole certezze quotidiane. Se pensi a Carrà non è stato un buon pittore, però è stato importante come supporto pittorico. Come Boccioni, che ha detto due o tre cose sull’arte, fantastiche, su Picasso e il picassismo, così importanti e ancora attuali, ma come pittore ha dato poco, il suo lavoro non vale niente, formalmente non è buono. Invece, in un altro senso, se pensi a Caravaggio e a El Greco, forse hanno detto delle cose poco interessanti ma il loro lavoro è incredibile.

GP/HK: Come si svolge la tua giornata?
EC: Mi alzo la mattina verso le otto o nove e la prima cosa che ho voglia di fare è di uscire di casa a tirar su un po’ d’aria; poi vado al mercato. Il problema della mattinata è di tenere il passo, tenere il passo con il tempo, essere sicuri di essere in piedi. La mattina non dipingo mai, la mattina cammino.
GP/HK: Cosa intendi tu per leggendario?
EC: Le leggende sono le uniche cose vere che esistono, che continueranno a esistere. Il resto è Storia, ma la Storia è falsa, come sai. Di un fatto ci pervengono i dati, non l’anima. La leggenda ci dà anche l’anima, l’odore dei fatti.
GP/HK: Cosa pensi della situazione dell’arte degli altri paesi? La Germania, gli Stati Uniti…?
EC: La Germania vive ancora sull’eredità di Beuys, come gran parte dell’Europa.
GP/HK: E Kiefer?
EC: Kiefer è un bravissimo pittore degli anni Sessanta, e come lui Baselitz. I più giovani sono ottimi artisti, ancorati però a problemi esistenziali non formali. E il loro rifiuto di Beuys ne testimonia il punto di riferimento. Beuys è un deposito di guerra. Il suo lavoro sui diversi materiali attraverso cui cerca di formalizzare un’immagine è enorme. Noi lo possiamo stimare, amare, ma difficilmente conoscere; come il rumore del Reno, solo i tedeschi possono conoscerlo. Per questo Beuys è il grande mistero e l’unico vero depositario del mistero. Kiefer è vicino a Beuys, ma il suo limite è che sia costretto a identificarsi con un filone narrativo. Salomé e Castelli, che mi piacciono molto, sono legati a un problema esistenziale creando un’immagine. Ma il deposito, la necessità, il luogo necessario è Beuys.
GP/HK: In questo momento ti interessano di più gli artisti americani o tedeschi?
EC: Julian Schnabel ha un bel sogno, ma è un sogno globale, vuole passare attraverso il corpo di tutto e di tutti, e lo capisco. Io invece penso che l’arte si debba interessare a una piccola cosa. David Salle è un ragazzo molto intelligente, ma la sua mostra da Mary Boone era disastrosa. L’arte non ha bisogno di persone intelligenti ma di strade aperte. Non conosco molto Robert Longo, mi sembra molto americano però. Il grande problema del mondo è l’arte italiana. Il mondo dell’arte vive in uno stato di bagliore che è dato dall’arte italiana. Noi conviviamo con artisti come Guttuso, che per noi è come una cosa silenziosa; con grande stima, sappiamo che esiste ma finisce lì. È un altro livello. È quello dei treni: deraglia un treno, arriva un temporale e fa cento morti, lui sente la necessità di fare un quadro. Invece io sono per le catastrofi, per l’energia che portano. Credo che succederà una catastrofe, tutto andrà alla deriva, e i critici saranno costretti a ristudiare per ritrovare in se stessi un minimo di energia per poter lavorare. A New York nessuno voleva crederci quando dicevo che tra poco resteranno non più di cinquanta gallerie, non c’è spazio per più di cinquanta. Adesso sono duemila.
GP/HK: Non sei un po’ apocalittico?
EC: Il mondo cambia da un momento all’altro. Io te lo dico. Il mondo deve ascoltare gli artisti, non solo per quello che fanno. Quando noi abbiamo incominciato a lavorare, al di là del nostro lavoro, se tu parlavi dell’atmosfera la gente si metteva a ridere. Qualche volta se ne parlava tra noi, ti ricordi, si diceva di quando si pensava che non sarebbe potuto succedere e invece poi è successo? Così può succedere di nuovo qualcos’altro. Sono due anni che Leo Castelli mi chiede una mostra, direttamente o indirettamente attraverso Gian Enzo Sperone. Io stimo Leo Castelli ma non posso fare una mostra in due gallerie. Se Gian Enzo insiste perché io faccia una mostra da Castelli gli dia la sua mostra, per me una galleria vale l’altra. Se accettassi di esporre in entrambe le gallerie, anziché quattro lavori o cinque diventano di più. E diventa impossibile. E quando diventa impossibile sai cosa succede? Succede il caos.