Damiano Gullì: Vorrei iniziare parlando del tuo recente intervento nell’Apartment N.50 dell’Unité d’Habitation di Le Corbusier a Marsiglia. È molto interessante perché, da una parte, introduce la problematica del confrontarsi con storia e memoria — in questo caso quella di un mostro sacro come Le Corbusier — dall’altra, tu scegli di creare un ulteriore dialogo con designer tuoi contemporanei inserendo opere di Jasper Morrison, Konstantin Grcic e Ronan & Erwan Bouroullec, negli anni precedenti chiamati a loro volta a misurarsi con questo appartamento. Ci racconti il progetto?
Pierre Charpin: La componente principale di questo progetto, come nel caso dei designer che mi hanno preceduto, era quella di fare una mostra, di presentare il proprio lavoro, in un appartamento occupato dai suoi proprietari. Occorreva dunque considerare lo spazio come un’abitazione come luogo di vita e non solo come spazio espositivo. Inoltre, come hai detto, si tratta di un appartamento storico, con delle qualità spaziali e formali molto singolari, molto forti e che in più si trova in un edificio “mitico”, un “edificio prototipo”, simbolo della ricerca moderna sulle nuove tipologie di abitazione. L’edificio lo conoscevo bene perché ero già stato lì, anche se in un altro appartamento, quando ho fatto un progetto al CIRVA alla fine delle anni Novanta. È un edificio che mi ha sempre affascinato, con cui in fondo ho una certa “familiarità”, perché ci avevo già vissuto. È forse per questo che mi sono confrontato con il progetto senza grandi difficoltà. Poi, in accordo con i proprietari, ho deciso di passare qualche giorno nell’appartamento quando loro non c’erano. Arrivando, avevo già in testa una lista dei miei pezzi disponibili per la mostra. Durante i quattro giorni in cui sono stato lì pian pian ho pensato, con la mia lista in testa: “questo lo metterò qua, questo qui, questo là, etc…”. Il progetto si è fatto così, in un modo quasi naturale, un po’ come quando uno trasloca e trova tranquillamente il posto giusto dove mettere le sue cose. Ho voluto prendere poi in considerazione il fatto che tre designer, per i quali tra l’altro ho una grande simpatia, avevano già partecipato a questa esperienza prima di me. Allora ho deciso di lasciare almeno un pezzo di ciascuno come una stratificazione nella storia di questo appartamento, la memoria storica e anche quella più recente. Per finire, ho ingrandito qualcuno dei miei disegni, che ho inserito nella trama del Modulor che si trova sulle pareti dell’appartamento. Il che era anche un modo di evocare l’interesse di Le Corbusier per gli affreschi, spesso presenti nelle sue architetture. Tutto ciò ha prodotto un insieme molto colorato, piuttosto allegro, non “museale”. Non volevo fare qualcosa di statico.
DG: Abbiamo appena parlato di Le Corbusier… Chi sono i tuoi maestri?
PC: Non ho maestri perché non ho seguito l’insegnamento di uno né di più maestri. Per quanto riguarda il design sono un autodidatta. Direi che per tentare di capire come sono andate le cose ho guardato con grande attenzione, e anche passione, alla produzione di certi artisti, designer, architetti che mi interessavano e che ovviamente mi hanno influenzato in certi momenti della mia esperienza. La lista sarebbe dunque abbastanza lunga. Però vorrei ricordare qui mio padre, artista, purtroppo scomparso poco tempo fa. Mi ha molto influenzato nel suo modo di essere, libero, capace di andare avanti con perseveranza, di fare proprio quello che pensava dover fare, senza preoccuparsi del successo. Faceva le cose con grande volontà, sincerità ma anche con leggerezza, soprattutto negli ultimi anni della sua vita. Vivendo in contatto con lui e guardandolo fare, ho indiscutibilmente imparato molto, anche se non era per nulla un insegnamento. Era un padre, non un maestro.
DG: Qual è il primo oggetto di design con cui sei entrato in contatto?
PC: Se mi ricordo bene, le sedie di Charlotte Perriand che erano nell’appartamento dei miei genitori quando ero bambino; quelle con la struttura in legno con la base e lo schienale in paglia.
DG: Come ti sei avvicinato al mondo della progettazione? Quale è stato il tuo percorso formativo?
PC: Mi sono avvicinato al design un po’ per caso, lateralmente. Non ho mai pensato di diventare designer quando ero giovane. Non ho mai avuto un’ispirazione particolare verso questa professione né ho integrato gli insegnamenti delle scuole di design. Ho frequentato la scuola di Belle Arti a Bourges nel centro della Francia. Mentre studiavo arte visiva, in maniera più o meno consapevole, ho cercato di trovare un modo per fare qualcosa di “artistico”, ma molto più legato alla vita quotidiana. L’idea dell’“arte per l’arte” mi metteva in crisi anche se ero molto interessato all’arte concettuale, al Minimalismo americano. Ho cominciato a interessarmi all’oggetto d’uso, all’oggetto domestico. E da qui sono arrivato al design, cioè ho cominciato a guardare al metodo di progettazione e a integrare la questione della produzione. Però è stato un processo abbastanza lungo perché ho dovuto capire le cose da solo con esperienze più o meno positive dal punto di vista del risultato. Sicuramente, a un certo punto, ho anche cercato di non fare l’artista come lo era mio padre. Volevo trovare il mio percorso, il mio spazio espressivo, e il design è stato la risposta adeguata a tutte queste domande. In quel momento, all’inizio degli anni Ottanta, la lettura a scuola della rivista Domus è stata determinante. E lì che ho scoperto il design italiano di quel periodo, Alchimia, Memphis, l’architettura radicale, il contro-design etc… Erano forme abbastanza vicine a quello che conoscevo nel campo dell’arte, ho sentito subito una familiarità quasi naturale e intravisto nuove possibilità. Era un’apertura per me. Poi in un secondo tempo mi sono interessato al design in un modo più ampio.
DG: Nel 2005 crei una collezione che chiami Oggetti lenti. Possiamo interpretarla come una dichiarazione di poetica e una predilezione per una sorta di “slow design”?
PC: A dire la verità, questo titolo è apparso così, un po’ per scherzo, perché il processo di elaborazione e di produzione di questa collezione è stato molto molto lungo e anche abbastanza doloroso a causa delle forti tensioni con la Design Gallery che produceva la collezione. Di tutto questo ho preferito ricordarmi solo della lentezza, che si è ritrovata nel titolo. Suonava bene, era un titolo po’ misterioso. Cos’è un oggetto lento? C’era una certa connotazione poetica, per cui ho deciso di mantenerlo. Ma poi è vero anche che volevo proporre un rallentamento, una pausa, un respiro, un’idea di temporalità diversa da quella della merce, basata sull’accelerazione. Devo precisare che se questa idea di lentezza mi interessava, e può anche interessarmi oggi, non ne faccio una posizione definitiva, dogmatica. Non mi interessa procedere per dogmi. Certe volte sento anche una voglia di accelerazione, anzi, posso anche trovare in certi momenti che le cose non vanno abbastanza velocemente. Non sono unidirezionale e non ho posizioni definite una volta per tutte.
DG: Questa idea di “lentezza” si ricongiunge all’importanza della pratica del disegno nel tuo lavoro, come ben testimonia la mostra “La part du dessin” alla Galerie ELAC, ECAL/Ecole cantonale d’art de Lausanne…Cosa significa per te disegnare?
PC: Il disegno è una parte importante della mia pratica, al punto di averne fatto recentemente la mostra di cui parli a l’ELAC. Per me disegnare significa pensare. Penso con il disegno, e i pensieri mi vengono disegnando. Il disegno legato direttamente alla progettazione, sotto forma di schizzo, mi serve alla ricerca delle idee, delle forme, delle proporzioni, ma anche a liberare tutto quello che mi ingombra lo spirito in modo da renderlo disponibile. È un modo molto efficace per separarmi da certe cose. Disegno molto e butto via, molto. Poi c’è la pratica del disegno in cui la finalità è il disegno stesso. In questo caso si tratta di formati più grandi. Questa pratica è molto importante per me, perché, alla fine, è l’unico momento in cui non ho bisogno di competenze esterne, l’unico momento in cui assumo la totalità di una produzione.
DG: Un elemento che spesso ricorre nei tuoi lavori è una certa idea di non finito, di possibilità combinatoria fra più pezzi (penso ad esempio alla serie Ceram x). Crei oggetti che sembrano in un continuo divenire…
PC: Anche se le cose che faccio sono precise, mi interessa lasciarle aperte, non completamente definite, per dare spazio, respiro e offrire una più grande libertà di movimento al fruitore. Questa sensazione di non finito di cui parli, proviene anche sicuramente del fatto che cerco di concepire oggetti che non siano troppo carichi di significati. Mi interessa proporre oggetti interpretabili, dove il fruitore può entrare nel processo d’appropriazione dando un significato e anche, a volte, una funzione precisa all’oggetto. È il caso per esempio alle serie degli Stands del 2002. C’è anche una grande possibilità combinatoria fra i pezzi. Mi interessa molto pensare che un oggetto non esiste mai per se stesso, è sempre destinato a entrare in contatto, ad articolarsi con altri oggetti per creare realtà più complesse.
DG: Che funzione svolge il colore nei tuoi lavori?
PC: Il colore è un mondo molto vasto, che offre una possibilità di scelta infinita, e questo rappresenta tutta la difficoltà. Ci sono i professionisti del colore che ne hanno una conoscenza quasi scientifica, e non è il mio caso. Io lo uso in un modo intuitivo, anche se conosco per esperienza l’incidenza di certi colori sui volumi. A volte uso un colore per affermare una forma, a volte il contrario, per rendere la forma più permeabile allo spazio che la circonda, più silenziosa. A volte uso un colore per la sua capacità evocativa, o semplicemente perché mi piace quel colore in quel momento. Non ho una gamma definita di colori, la scelta di un colore o dei colori è sempre molto impegnativa.
DG: Vetro, ceramica, legno, marmo, metallo… Che valore hanno per te i materiali che di volta in volta impieghi nei tuoi lavori?
PC: Considero i materiali al servizio del progetto e non il progetto al servizio dei materiali. Anche quando mi si chiede di lavorare partendo da un materiale, trovo sempre delle ragioni esterne al materiale per elaborare il progetto. Per esempio, nelle cose che ho fatto al CIRVA, per me, il cuore del progetto, era l’elaborazione di un paesaggio anche se ovviamente si trattava di sfruttare le qualità specifiche del vetro per produrre questo paesaggio. Ma non era il vetro in sé che m’interessava.
Inoltre non ho un’idea predeterminata sui materiali. Quando la galleria Kreo mi ha chiesto di disegnare dei mobili da realizzare con il mosaico, non avevo un’idea precisa sul mosaico, anzi, ero piuttosto perplesso. Però, pensandoci un po’, ho trovato, con questo materiale e con questa tecnica, la possibilità di tradurre in un modo interessante certi miei disegni. L’idea di un progetto centrato sulla superficie dell’oggetto mi ha interessato subito, più che il materiale in sé.
DG: Cosa pensi del recupero dell’artigianalità a cui si assiste da alcuni anni nel campo del design?
PC: Se stai parlando del fenomeno dell’autoproduzione non mi sembra particolarmente interessante da un punto di vista delle proposte, ma forse non sono abbastanza informato. Riconosco però che questo fenomeno corrisponde sicuramente a un bisogno o almeno alla materializzazione visiva di quello che possiamo chiamare la massificazione della professione del designer. A me interessa l’idea di collaborazione, l’idea dell’interazione tra le conoscenze, le competenze. In questo senso sono un designer classico.
DG: La tua metodologia progettuale cambia a seconda che tu ti confronti con grafica, design e architettura di interni, e, soprattutto, nel confronto con grandi committenti?
PC: Cerco sempre di essere esigente al massimo livello!
DG: Il tuo lavoro è spesso in bilico fra il pezzo unico e la mass production. Come affronti la dialettica fra grande serie e piccola serie? Cosa pensi del fenomeno dell’art-design?
PC: Credo che tutto sia una questione di contesto e l’unica certezza metodologica realmente operativa è la comprensione del contesto in qui lavoro. Se penso di fare lo stesso tipo di cose per la galleria Kreo, la Manufacture Nationale de Sévres o per Alessi o Magis, allora qualcosa non funzionerà, qualcosa sarà sbagliato. Mi interessa molto confrontarmi con dei contesti diversi e capire cosa mi permette di fare quel determinato contesto. È anche per questo che non faccio gerarchie tra la produzione in serie limitata, artigianale, e la produzione in grande serie, industriale, o il pezzo unico come nel caso della campana di cui ho parlato precedentemente. Come dicevo prima, anche se cambio il contesto, provo sempre a essere esigente al massimo livello. Per quello che riguarda il cosiddetto “art-design”, non mi sento coinvolto in questa faccenda.
DG: Il design può essere “politico”?
PC: Dal momento in qui fai qualcosa che si rivolge agli altri, quello che fai è in un certo modo politico, perché impegni la tua responsabilità nei confronti degli altri ma anche nei confronti di te stesso. Quando ero giovane, si diceva “tutto è politico”, e a un certo punto l’ho pensato anche io. Parlare oggi in questi termini non significa granché, anzi, direi che si usa una formula un po’ convenzionale, svuotata di senso.
DG: La musica e il cinema influenzano il tuo immaginario?
PC: Non in un modo diretto, salvo forse nel caso del progetto della campana, anche se questo riferimento al film di Tarkowski, di cui ti ho parlato, è arrivato in mezzo al progetto, non come input iniziale. Ascolto spesso musica mentre disegno.
DG: Come giudichi il panorama del design contemporaneo? A quali artisti e designer contemporanei guardi?
PC: Non c’è da giudicare il panorama del design attuale: è quello che è. Lo vedo come una specie di giungla che sta crescendo ad alta velocità, dove si possono trovare delle buone piante da mangiare, pochissime deliziose, tantissime senza sapore, e anche alcune velenose.
by Damiano Gullì