Prada, Furla, Zegna, Trussardi, Max Mara, Les Copains. Ora anche Acqua di Parma: ultimo brand in ordine di tempo, all’interno della galassia luxury, ad abbracciare con trasporto l’arte contemporanea. Chiaramente a Milano, piattaforma privilegiata — a maggior ragione in questo furibondo e schizofrenico 2015 — per consumare un certo tipo di matrimonio.
Quello celebrato da Cloe Piccoli, che in veste di art director della casa profumiera chiama a raccolta sette artisti, sei italiani di nascita, uno d’elezione — e li convoglia nelle sale di Palazzo Cusani per costruire un percorso omogeneo lungo i sentieri della classicità. Punta molto sull’immagine di una tradizione che fa rima con nobile artigianalità il marchio patron dell’impresa, facendosi forte di un concetto che rimbalza con logica rispondenza nella scelta di assecondare in mostra un filone del post-moderno di chiara e ineludibile matrice meneghina. Nume tutelare del progetto è Alberto Garutti, che si ritrova a tu per tu con allievi — Diego Perrone, Paola Pivi e Simone Berti — e altre firme, quelle di Armin Linke, Massimo Bartolini e Rosa Barba, che si rivelano tutt’altro che estranee alla sua architettura concettuale. Nasce una riflessione eterogenea ed eterodossa, forte della produzione di opere nuove secondo uno schema rassicurante, poco incline all’azzardo. Buone opere di buoni artisti insomma, dalle voluttuose seducenti cascate di perle del Call Me Anything You Want di Paola Pivi all’omaggio che Linke tributa al genio assoluto di Carlo Scarpa; passando per la complessa La fusione della campana di Perrone. Ma poche, forse nulle, le sorprese. Comprensibile per chi muove i primi passi nel mondo del contemporaneo calzare scarpe di piombo e giocare dietro la linea della palla: il catenaccio — siamo italiani! — paga sempre, a maggior ragione quando gli interpreti sono di comprovata e indiscutibile qualità. Ma superato lo scoglio di un debutto tanto a modo aleggia il grosso interrogativo: cosa accadrà ora? Per segnare il passo, per lasciare il segno, serve forse osare un po’ di più.
by Francesco Sala