L’altolocata Mayfair londinese – quartiere noto per essere uno dei centri nevralgici in cui arte e ricchezza ne hanno determinato lo sviluppo sin dal XVII secolo – al civico 22 di Grafton Street si arricchisce con la nuova sede di Cardi, storica galleria milanese dal 1972.
L’edificio, una casa-torre del tardo Settecento dall’architettura equilibrata e proporzionata, convenzionalmente riconosciuta come stile georgiano, si sviluppa verticalmente su una superficie di mattoni distribuiti in maniera estremamente regolare. L’ingresso, così come le due bianche finestre di notevoli dimensioni che affacciano sulla strada, sono invece il risultato della fusione architettonica con il palladiano inglese. L’atmosfera all’interno è calda e accogliente, lo spazio “abitabile” è completamente spostato sul lato destro della costruzione, 1000 mq distribuiti su sei piani, ognuno dei quali è diviso in due ambienti con caminetti che conservano (almeno al piano terra e al primo piano) la preziosità dei marmi originali. La meticolosità e la cura usate nel ripristinare il tipico ambiente inglese coevo è percepibile nella conservazione degli intonaci originali, ove possibile, nella ringhiera dall’effetto “smalto lucido” che cinge la fitta scala interna e nella tappezzeria fortemente caratteristica con motivi dai toni grigi e senape che fa da pendant alla moquette in grigio chiaro che riveste le scale. I pezzi di legna finemente tagliati e disposti in modo ordinato all’interno di ogni caminetto suggeriscono soltanto l’illusione di ritrovarsi all’interno di un’abitazione confortevole, che viene rotta dal bianco luminoso che ricopre le pareti di ogni stanza e dal parquet industriale laminato, che ci riporta immediatamente alla galleria.
Dopo quasi cinquant’anni di attività Cardi allestisce qui una selezione di opere dall’Arte Povera, al Minimalismo Americano, al Gruppo Zero. Il risultato del binomio spazio espositivo/opera, nel caso dei poveristi italiani, oscilla fra la restituzione completa di alcuni lavori che, presi singolarmente, riescono a svincolarsi dall’ambiente rigenerandosi attraverso un’aura nuova – penso ad esempio a Maria a colori (1962-1993) e ai Tre uomini (2007) di Pistoletto o a Rete Ghiacciante (1990) di Calzolari – e l’eclissarsi, in casi come Kounellis, Zorio e Penone, rispetto a un luogo al quale non appartengono, assumendo in questa cornice così perfetta (forse troppo) una nota di solipsismo.
Nel piano sotterraneo si avverte invece il bisogno umano di Mario Merz, celebrato attraverso una selezione di opere prodotte entro il decennio degli anni ’80, fra questi in particolare Igloo (1983) isolato e confinato in una sua spazialità, potenzialmente arricchita dalla luce naturale che riesce a penetrare, restituisce quella connessione con la natura e quell’illimitatezza che il suo lavoro richiede.