La mostra “GDM – Grand Dad’s Visitor Center” si potrebbe paragonare a una sonata di Mahler, in cui è proprio l’elemento triviale – che si traduce nell’uso di motivi appartenenti alla musica “inferiore” o popolare – ripetuto cadenzatamente a far saltare in aria l’equilibrio della composizione. Così Laure Prouvost, concependo la mostra come una grande immagine mnestica che si inserisce a fatica nello spazio, aggredisce il luogo con la ripetizione di moduli che diventano spazio nello spazio, esasperandone la relazione tra contenuto e contenitore.
All’interno si compongono meta-spazi che fanno eco a ricordi personali dell’artista, abilmente inglobati nella sua ossessiva ricerca intorno ai meccanismi della rappresentazione.
Il sofisma della “bruttura” – del fastidio visivo e tattile – ha inizio all’ingresso, dove si è obbligati a calpestare una lingua molle e gommosa; proseguendo due seni di notevoli dimensioni attivano immagini conturbanti che vanno dal mito della creazione al feticismo attuale della chirurgia plastica. Il rapporto tra il sé e l’altro è aperto al senso, al tatto, al gusto, alla vista, alla memoria e al presente che si avverte a intermittenza. Bergson pensava che la ricerca dell’immagine derivasse sempre da un passato, come l’uso in Prouvost della storia di suo nonno, artista concettuale, divenuto immagine e dispositivo strutturale in tutto il suo lavoro. A partire dai video The Artist (2010) e I Need to Take Care of My Conceptual Grandad (2010) è evidente il recupero della ricerca concettuale di Joseph Kosuth che interessa le disfunzioni e le tautologie insite nel linguaggio, la distonia tra parola, significato e la sua rappresentazione, sviluppata tuttavia con un’inclinazione post-moderna, per opposizione, generando così un effetto caotico e disturbante. Il gesto destrutturante dell’artista mina l’apparato della rappresentazione visiva di un’identità, di luogo e tempo e i relativi poli di emissione e ricezione. Il soggetto nelle opere video non è mai individuale, diventa piuttosto espressione universale di un intero da scomporre – problema sociale o disagio schizofrenico, che sia.
Questa attitudine a soverchiare una visione monolitica funziona in ogni singolo lavoro ma la forzatura della sovra-cornice, una letterale mise en abyme, corrompe la percezione fino al punto di collidere, azzerando l’attenzione cerebrale sulle opere. Sculture, object trouvé, video, proiezioni, una sala da tè, persino una zona allestita per un karaoke e un salone di bellezza con pettinature africane – traduzione visiva della rielaborazione di Rory MacBeth de Le Metamorfosi di Kafka – sono condensate in una spirale immaginifica cacofonica che non si esaurisce. Grandma’s Dream (2013) è l’unico rifugio, rosa e surreale, in cui la vista riposa.