La scultura nel lavoro di Rochelle Goldberg si trasforma in un conduttore di riflessioni sull’ormai storicizzata questione dell’orizzontalità nell’oggetto artistico.
Nella mostra No Where Now Here presentata alla GAMeC di Bergamo, l’artista infetta la visione abituale dello spazio ricoprendo letteralmente l’intera area con una moquette monocromatica dalla tonalità a metà tra il mattone e l’arancione, rendendo di fatto l’occhio “neutrale”. Questa neutralità, quasi perversa e tutt’altro che ingenua, si compie a un livello meramente percettivo, mentre a livello teorico presenta uno scarto visibile rispetto alla personale The Plastic Thirsty, tenuta lo scorso gennaio presso lo SculptureCenter di New York. Il ripensamento degli equilibri fra orizzontale e verticale e la manipolazione della bidimensionalità sono operazioni fortemente riconoscibili e autoriali, tuttavia è proprio in questa mostra che la necessità di ridisegnare una spazialità vergine attraverso il colore non fa che rendere evidente il fallimento dello sguardo “puro” del fenomeno umano che chiamiamo ancora arte.
Mirror Cells (2016), installazione che si compone di una struttura a binari incastrati perpendicolarmente, allude a una cellula contenente esistenze in potenziale sviluppo. Queste forme di vita appaiono ambigue, di una bellezza quasi ripugnante e trattengono una carica erotica che deriva dall’attrazione verso il doppio, quella figura mitologica del metà uomo e metà animale, un topos per eccellenza nell’immaginario iconologico. Goldberg ha la straordinaria capacità di ibridare la materia, di avvelenare l’inganno dell’uno quale entità completa e non trasformabile. La manualità penetra nella ceramica la cui componente plastica e brillante è occultata dallo smalto lucido antracite, grezzo e industriale. Quando l’odore di “non umano” si assesta, la possibilità che si generi al suo interno un processo naturale si fa concreta: i semi di chia, per la proprietà affascinante di trattenere quantità di acqua che garantirà loro la vita stessa, diventano metonimie e svelano le molteplicità e le ambivalenze insite nella realtà.
A rompere una visione che sembra obbligare il visitatore a guardare in basso è un gufo bianco dall’effetto traslucido confinato, per contro, in alto. Il punto di vista è fuori da ogni standard di altezza umanamente percettibile. Nel corridoio Hands Replace the Deck (2016), ci riporta al pavimento, a quell’abbassamento del piano pittorico teorizzato nel pianale steinberghiano – il ribaltamento del tradizionale asse verticale formalizzato da secoli di accademismi – e Co-Mingled at Pool (2016) rivela maggiormente la sorprendente attitudine di Goldberg nel riflettere ancora sulla scultura come problema in opposizione alla superficie appartenente al quadro, al grado zero in cui si pensa a come sviluppare oggetti nello spazio che l’uomo/osservatore abita.