Learning from Athens Documenta 14 / Kassel

28 Settembre 2017

La Grecia è una metafora? Due mesi dopo l’apertura di Documenta 14 ad Atene, l’edizione di Kassel seguita con l’irrisolta questione riguardo cosa impariamo, abbiamo imparato, stiamo imparando da Atene. Si tratta di una Grecia perdente e allegorica: un campo in cui narrazioni critiche sulla dispersione globale, l’austerità, la migrazione, la democrazia, il fascismo storico e la produzione culturale possono essere alternativamente pensate e messe in discussione.
In una recente intervista su art-agenda, l’ex ministro greco della finanza Yanis Varoufakis ha notato la simultaneità della mostra con la liquidazione dei beni nazionali greci (“quattordici aeroporti regionali, quelli estremamente lucrativi come Santorini, Mykonos e così via”) in vendita al Fraport di proprietà dello stato tedesco. Si può immaginare che le entrate che questi aeroporti generano, che in precedenza sarebbero dovute essere destinate ai servizi pubblici greci resi morti dall’austerità, contribuiscano ora alla ricchezza dello Stato tedesco, i cui fondi, a loro volta, hanno portato Documenta ad Atene.
Che cosa significa per un prestatore imparare da un debitore? In un numero del 2016 di C Magazine (in un testo non legato alla mostra), Candice Hopkins, una delle curatrici di Documenta 14, parla del rapporto tra l’apprendimento e il potere: “‘Pedagogia’ deriva dal greco, paidagōgos, che indica ‘Lo schiavo che accompagna il bambino a scuola.’ Forse paidagōgos implica l’apprendimento dai diseredati (anche se chiaramente quelli che insegnano hanno poca scelta in materia)”.
Quello che si aspetta che una mostra faccia – e quali collusioni con strumenti repressivi di potere si accettano come normali in nome del discorso – dipende probabilmente dal valore che si dà a una mostra. Alcuni assegnano un valore intrinseco alle mostre e alla loro produzione, mentre altri non lo fanno. Il lavoro più iconico di Documenta 14, Parthenon of Books di Marta Minujín (2017), è una ricostruzione di un lavoro monumentale originariamente eretto a Buenos Aires nel 1983: una replica del Partenone in scala, sostenuta da impalcature metalliche piene di libri. Nella versione di Buenos Aires erano utilizzati libri vietati tirati fuori dal deposito della giunta militare argentina appena deposta; nella versione di Kassel sono utilizzati libri vietati in altri contesti. Di fronte, verso nord c’è BEINGSAFEISSCARY (2017) di Banu Cennetoğlu, un’installazione testuale il cui titolo sostituisce il nome del Fridericianum sulla facciata dell’edificio, riproducendone il carattere distintivo; la frase è presa in prestito dai graffiti ateniesi. Di fronte al Parthenon of Books, verso sud, vi è una stazione temporanea di Polizia contrassegnata con la segnaletica di Documenta. Anche se “essere sicuri è spaventoso”, in un contesto d’arte, può essere letto come uno stereotipo sulla minaccia della cultura egemonica, la presenza dei poliziotti brandizzati Documenta porta alla mente risonanze non intenzionali tra lo stato di repressione, la politica della sicurezza pubblica e la relazione strutturale dell’arte contemporanea con i divieti (sia reali che immaginari).
Il mio apprendimento personale a Documenta è iniziato tra le opere di Lorenza Böttner, i cui dipinti, disegni e fotografie sono esposti alla Neue Galerie insieme a materiali archivistici che documentano la vita e la pratica dell’artista transgender senz’arti, che sembra aver avuto poche presentazioni pubbliche dopo la morte nel 1994. Una fotografia incorniciata documenta una delle performance pubbliche di pittura di Lorenza: in piedi sul marciapiede, usa i piedi per dipingere una tela di fronte a pochi spettatori, sposando la figurazione estetica della pittura con la fatica del suo fare, un atto politico nella misura in cui lo stesso corpo di Lorenza è politico. Altri lavori trattano nella malleabilità del genere e i suoi produttori: in alcune serie di ritratti in bianco e nero, il volto e i capelli di Lorenza sono soggetti a trasformazioni di stile, prendendo in prestito fluidamente la mascolinità, la femminilità, l’elaborato e il peculiare. In un disegno su carta, il corpo di Lorenza è reso da due metà verticali, divise lungo il binario di genere, con ciascun lato designato in modo diverso. Il pezzo centrale della piccola installazione dedicata all’opera di Lorenza è un grande dipinto del 1985, in cui Lorenza, seduta, culla un bambino in grembo, dandogli da mangiare da una bottiglia che tiene tra la testa e la spalla. A fianco dell’auto-immaginazione di Lorenza di un corpo disabile, e non unificato sessualmente, come vitale, autonomo, espressivo ed erotico, questo ritratto centrale dell’artista, una visione d’attenzione e riproduzione sociale, è da leggere come la libertà di scegliere ciò che significa il proprio corpo.
Installato in uno dei padiglioni espositivi in vetro su Kurt-Schumacher-Strasse, Nysiros (Vivian’s Bed) di Vivian Suter (2016-17) è una messa in scena di tele dipinte appese e non stirate, un eccesso di colorati e ordinari piaceri. All’interno dell’installazione altre tele dipinte danno forma a un letto posizionato al centro, con dipinti aggiuntivi accatastati sotto. Il letto di Vivian mi ricorda quello di Jean Rhys: la scrittrice britannico-caraibica che, alla fine della sua vita, povera, oscura e alcolizzata nella campagna britannica, viveva con le pagine di quello che poi sarà il manoscritto del suo romanzo più noto, Wild Sargasso Sea (1966), ammucchiate sotto al letto. L’immagine del genio femminile invalido – e la relativa fluidità tra svegliarsi, dormire e lavorare – è quella che rinuncia alla preziosità (e alle stratificazioni di genere implicite e classificate) del distanziamento tre produzione culturale e domesticità e che, per tutte le altre sue tristezze, sembra sopportare un aspetto della libertà privata.
La possibilità della libertà privata è presente anche nel video Vivian’s Garden (2017) di Rosalind Nashashibi, in cui il soggetto è la stessa Vivian Suter. In mostra al Naturkundemuseum, è un ritratto affascinante della Suter e di sua madre novantacinquenne, Elisabeth Wild, e della casa che condividono a Panajachel, Guatemala. Nashashibi, durante le giornate di Suter e Wild, cataloga l’intimità della routine assieme alla pratica artistica. I graffi di Suter dipinti su tela, portano un pannello incorniciato attraverso la giungla. Su una sedia a rotelle, Wild fa collage da ritagli di carta e di riviste. Parlano dell’ex marito di Suter: “Hai cambiato la tua vita, ti sei liberata di tuo marito”; “Era spaventoso”; “Cambiava di continuo.” Nashashibi inserisce come colonna sonora finale del video una canzone pop, L’amour et la violence (2008) di Sébastien Tellier, e c’è un piacere per quanto si incongruente e kitsch, ma ciò nonostante rende ancora grande la storia. Alla Neue Galerie, una stanza è dedicata a una selezione di piccoli collage di carta di Wild incorniciati – architettonici, grafici, poppy e luminosi.
Questi quelli che per me sono stati i migliori momenti di Documenta. Altri lavori da ricordare:  Ecosex Walking Tour di Beth Stephens e Annie Sprinkle, che hanno invitato i partecipanti a prendere parte a un matrimonio con la terra, e a visitare il clitoride planetario, convenientemente collocato a Kassel; Whispering Campaign (2016-17) di Pope.L, i cui materiali sono elencati come “Nazione, persone, sentimento, lingua, tempo”; il meraviglioso e violento paesaggio sognante di nudi di Miriam Cahn; MURRILAND! (2016) di Gordon Hookey, un monumentale dipinto storico, ricco di riferimenti letterari, che narra la violenta fondazione coloniale dello stato australiano. È difficile vedere queste opere incluse in un progetto in cui la Grecia è posizionata come un nebuloso altro, a cui può essere paragonato qualsiasi cosa – e in particolare ogni tipo di identità emarginata. In un brutto momento direi che trafficare in inadeguate metafore non è un fallimento del sistema artistico, ma piuttosto il suo lavoro più affidabile, di cui la Documenta di quest’anno ne è un esempio ordinario. Da Atene, possiamo imparare che tutto è uguale o è diverso.

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