In “Who Cares if You Listen: The Algorithm at 100” (pubblicato in Flash Art no. 316 September – October 2017, “Artificial Intelligence”) Steve Kado riflette sul nostro presente e sulla tendenza a osservare passivamente – o meglio “interpassivamente”, come direbbe Robert Pfaller – un pensiero umano algoritmico che postpone infinitamente le nostre scelte – sociali, morali o estetiche che siano – a favore di processi decisionali sistematici.
Tuttavia, si chiede Kado, perché stupirsi quando siamo noi che alimentiamo costantemente e con estrema accuratezza i modelli su cui si basa l’intelligenza artificiale? Un articolo apparso lo scorso febbraio su Il Sole 24 ore annunciava l’acquisizione da parte di Sotheby’s di Thread Genius, una start up che si serve dell’AI per carpire gusti e tendenze da sottoporre ai collezionisti. Quello che chiediamo alla macchina, dunque, è di ridurre quanto più possibile il margine di rischio, ripararci da eventuali ma forse necessari fallimenti.
Che cosa sta accadendo alle arti visive nell’era dell’AI, superata e forse non del tutto chiusa la questione che ruota attorno alla sfortunata etichetta del post-internet? Gli effetti derivati da questa condizione si ritrovano in certe produzioni artistiche che esasperano gli stimoli fra visuale e verbale, l’iper-umanizzazione della natura o la disaffezione per l’individuo; e per contro il terrore della perdita delle informazioni che cambiano i loro supporti di archiviazione.
La mostra “The Electric Comma” alla V-A-C Foundation di Venezia e sviluppata in collaborazione con la Kadist Foundation è uno spaccato di come l’arte riflette e risponde al mutamento dell’approccio alla conoscenza e alla relazione complessa fra umano e “non-umano”. Shannon Ebner, il cui lavoro (esposto nella memorabile mostra “Il palazzo enciclopedico” alla 55a Biennale di Venezia) dà il titolo alla mostra, è presente anche con Dear Reader (2011), un video nel quale i tredici versi incompiuti di una poesia appaiono e scompaiono con la medesima velocità in cui siamo soliti apprendere informazioni nel linguaggio stradale. La linea curatoriale inciampa, però, sull’accostamento di Ebner a tre opere di Alighiero Boetti, generando straniamento e perplessità sulle modalità a volte troppo facili in cui si tende a leggere l’opera boettiana, soprattutto in relazione alle produzioni odierne orientate alle problematiche del linguaggio¹; tuttavia si sviluppa nei piani successivi in modo più fluido e coerente diramandosi e toccando diverse tematiche. Quella del linguaggio è particolarmente efficace nell’opera Something Contained, Removed (2000) di Jonathan Monk, due parentesi vuote che stanno ad indicare la presenza di un’assenza, del rimosso; o nelle mappe conoscitive di Erick Beltrán – diagrammi estesi in grado di mappare la distanza e la progressione fra individuo e società – evidenziano la complessità del diagramma con indubbi echi straussiani. La relazione fra uomo e macchina fonde sensazioni corporali e cerebrali nel video Soft Materials (2004) di Daria Martin, in cui la tensione sinestetica esplode rivelando possibile la contaminazione dei sensi nella percezione. La paura generata dal pericolo ricorrente della perdita del nostro patrimonio conoscitivo nel trasferimento dalla carta al digitale riflette nella serie fotografica File Room (2011) di Dayanita Singh la tendenza diffusa a guardare la superficie delle cose e la loro rappresentazione: le fotografie documentano l’immagine di un archivio, ma non il suo contenuto. L’affascinante scultura/tenda led flessibile di Daniel Keller Soft Staycation (Gaze Track Edit) (2013) proietta i movimenti oculari di un gruppo di individui coinvolti da Keller in un’operazione volta a registrare le direzioni degli sguardi durante la visione di annunci turistici. Non mancano momenti di interazione diretta entrando nel “confessionale” Diane (2017) di Valentin Fetisov; a differenza di Siri – l’assistente digitale di Apple sempre pronta a soddisfare le nostre richieste – la Diane di Fetisov ci invita a dire qualcosa e ci riporta inevitabilmente a uno dei quesiti più spinosi del nostro XXI secolo: l’AI è l’alterità o rimarrà per sempre il nostro riflesso?