“La teoria della storia naturale non può essere dissociata da quella del linguaggio” è l’assunto di Michel Foucault su cui si basa la mostra di Uriel Orlow presentata al PAV di Torino. Curata da Marco Scotini, “Prima che le Piante Avessero un Nome” mette in luce come il denominare non sia un atto neutrale ma politico, soprattutto quando una cultura impone a un’altra un nuovo vocabolario rispetto a quello autoctono. Il nuovo nome dato alle cose diviene pertanto indice dei meccanismi di oppressione attuati dall’Occidente suoi popoli sottomessi, mentre il nome originario, qualora sopravviva alle forze che vorrebbero cancellarlo, rinvia alle strategie di resistenza indigene nel contesto coloniale.
Al PAV, i molteplici video, installazioni e fotografie esposte, fanno convergere differenti luoghi e culture per noi lontane (soprattutto sudafricane), raccontando micro-storie perlopiù sconosciute al visitatore. L’installazione sonora What Plants Were Called Before They Had a Name (2017) che dà il titolo alla mostra e che ne costituisce il perno, ad esempio, mutua il suo nome dal glossario orale dei nomi in diverse lingue africane attribuiti dagli indigeni alla vegetazione autoctona, che invece era stata rinominata dai colonialisti assimilandola al sistema di Linneo.
Per Orlow è attraverso la botanica che risulta possibile indagare le dinamiche politiche tra Europa e Sudafrica nonché le loro culture, spesso interconnesse. Da qui la polarità intrinseca al percorso espositivo: le opere in mostra pongono l’attenzione da un lato sulle specificità di ogni territorio, sulla sua memoria e sui suoi individui, dall’altro sulla contaminazione tra locale e globale frutto di continue migrazioni. Polarità che è funzionale a veicolare una “scomoda” verità: il postcolonialismo, con le sue azioni multinazionali, non è altro che il proseguimento dello sfruttamento delle risorse naturali dei territori indigeni inaugurato in epoca coloniale.