Una energia in disequilibrio, in un tentativo indomito di libertà e di infiniti possibili. Le immagini sono movimento, ovvio, ma qui scappano con la loro adrenalina gassosa. E tutto si fa inafferrabile e possibile allo stesso tempo.
Priscavera è sperimentazione che esplode potente in spazi di libertà o che si addormenta serena su un tramonto romantico. È colore che combatte, forma che sorprende, pattern che ingabbia o sorriso che abbraccia. È dada, è punk, è classic, è post, è moderna. Bastano solo due lettere – PV – per le vere guerriere contemporanee di Priscavera.
Gea Politi: Descrivi la giornata tipo di Prisca Vera Franchetti.
Prisca Vera Franchetti: In queste prime fasi di costruzione della mia attività, appena sveglia entro immediatamente nel flusso vorticoso del mio lavoro. Per prima cosa cerco di bilanciare le decisioni creative con quelle aziendali, e di sbrigare poi le situazioni più urgenti. Trascorro la maggior parte della giornata nel mio studio, ricercando e acquistando tessuti e finiture. Sono anche spesso in fabbrica; essere a stretto contatto con il processo di sviluppo e produzione è molto importante per me. Sono un po’ assolutista, un tipo di persona per cui “o tutto o niente”, quindi con difficoltà riesco a staccare dalla mia attività lavorativa. Ne sono spesso assorbita anche nei fine settimana. Quando riesco a ritagliarmi una pausa, ne approfitto per viaggiare, perché solo così riesco a staccare la mente dal mio lavoro.
GP: Quale problematica in particolare incorri nello svolgimento della tua attività?
PVF: Lavoro con piccoli produttori indipendenti di tessuti e capi d’abbigliamento a New York, Los Angeles, Portogallo e Italia. Mi interessano molto i passaggi che riguardano lo sviluppo di tutto il progetto. Per me creare vestiti significa ricercare, approvvigionare, sviluppare i modelli passando dalla sartoria al design, e viceversa. Mi piace collaborare con fabbriche che valorizzano il tempo, l’abilità e il talento dei loro artigiani. Spero che i miei capi rispecchino tutta la qualità e il lavoro che c’è dietro per realizzarli e infine mostrarli. Se un capo è troppo economico e viene acquistato, qualcuno da qualche parte ci rimette. Voglio portare la consapevolezza di questo attraverso il mio lavoro.
GP: Sembri interessata alla combinazione di culture diverse con l’intento di modernizzarle.
PVF: Lo sono. Fortunatamente viviamo in un mondo molto accessibile; possiamo facilmente fare ricerche e imparare a conoscere altre culture e costumi. Un tempo invece era difficile da esplorare. Ci sono molti stimoli visivi e materiali da utilizzare, ma al contempo dobbiamo proteggere il nostro patrimonio naturale. Credo che nel rispetto delle altre culture sia importante non smettere di trovare ispirazione al di fuori di ciò a cui ci sentiamo facilmente connessi. Tutti noi dovremmo comunicare e rappresentare ciò che conosciamo, ma è importante non perdere il senso della curiosità.
Imparo costantemente cose nuove, soprattutto per quanto riguarda la tecnica. Concettualmente, trovo ispirazione soprattutto guardando dentro di me ed esplorando ciò che mi è familiare. La mia ispirazione proviene dai ricordi della mia infanzia italiana, ma a volte le influenze esterne si sovrappongono. Per esempio, qualche stagione fa ho disegnato una collezione che si ispirava a Tekken 3, il gioco arcade di combattimento giapponese. Ero ossessionata da questo videogioco quando ero bambina; il linguaggio del corpo e la potenza dei personaggi mi hanno davvero colpita e ricordo di aver avuto un legame molto personale con loro. C’è un’evidente influenza giapponese in ogni aspetto del gioco, ma nel momento in cui produco un capo si scompone in così tanti strati, che è impossibile dargli una cultura di provenienza specifica.
GP: Che cos’è per te la contemporaneità?
PVF: Il disordine e l’assurdità sono contemporanei. Quando penso alla definizione di contemporaneo, ciò che mi viene in mente non è il presente, ma più che altro una reazione al presente che sarà poi proiettata nel futuro. Il mio obiettivo è quello di prevedere le idee di oggi nell’abbigliamento che realizzo, ed è anche quello di precorrere i tempi, di investire nella mia nuova idea di abbigliamento.
GP: È mai successo che un evento disastroso si sia poi rivelato un eccellente risultato? Se sì, quanto spesso accadono questi “incidenti”?
PVF: Non riesco a individuare un evento specifico, ma il più delle volte quando succede qualcosa di tragico diventa un’utile esperienza di apprendimento. Purtroppo alcune cose non si possono controllare perché la moda opera molto velocemente. Noi siamo un piccolo team che deve combattere quotidianamente con i pugni serrati, ma al momento giusto anche sapersi lasciare andare. Questa è stata una lezione importante per me sia nella mia vita personale che in quella lavorativa. Affrontare qualcosa di disastroso spesso porta ad un risultato migliore, o semplicemente ad un piccolo passo per avere “una pelle più spessa”.
GP: Non sei solo una designer di abbigliamento, ma anche una creatrice di immagini. Le tue campagne non sono mai eccessive, ma comunicano un senso di vita reale unita alla comodità del capo. Le persone che indossano i tuoi abiti sembrano indossare una seconda pelle.
PVF: Apprezzo la vestibilità tanto quanto una superficie su cui proiettarsi. Nelle mie campagne non cerco di dettare un’immagine, ma di dare una possibile sensazione di come la collezione possa essere compresa. Voglio lasciare spazio ai miei clienti per contestualizzare l’abbigliamento nella loro sfera.
GP: La tua ultima campagna sembra seguire un’estetica precisa. Ci puoi dire qualcosa di più?
PVF: Realizzare e organizzare il look book e la campagna SS21 è ironicamente rilevante alla tua domanda precedente sui “disastri” lavorativi. Inizialmente abbiamo subito una sventura dopo l’altra che si è poi trasformata in un risultato eccellente! Purtroppo alcuni permessi per utilizzare delle location specifiche sono stati revocati; i voli hanno subito ritardi; abbiamo dovuto viaggiare in sicurezza con tutte le accortezze inerenti alla pandemia in corso, senza però compromettere la nostra visione.
Molte cose che erano state pianificate e che sono andate in fumo, hanno richiesto un intervento immediato. Per fortuna, ho un team talentuoso che ha risolto il tutto in modo tempestivo. Quando accadono dei disastri, è fondamentale avere fiducia nelle capacità, nell’esperienza e nella visione delle persone con cui si lavora.
Ho deciso di fare la SS21 a Roma, la mia città natale. La collezione si è ispirata al rapporto tra vacanza e lavoro in un momento senza precedenti, in cui sia viaggiare che lavorare sono diventati innaturali. Mentre il mondo diventa il nostro ufficio esteso, ciò che costituisce lavoro e piacere si trasforma in un unico processo. Sono stata influenzata da ciò che accadeva all’esterno, e il cambiamento nel mio processo creativo ha determinato il risultato degli abiti. L’ispirazione dietro la collezione era ciò che stava realmente accadendo nel servizio fotografico, quindi mi è sembrata un’esperienza molto autentica che mi ha tenuto alta la motivazione.
GP: Definiresti il tuo marchio come un logo?
PVF: Non direi. È molto di più. Penso che la ragione per cui qualcuno compri un capo d’abbigliamento sia la storia che c’è dietro – il mondo del designer e la fantasia che si compra insieme ad esso, soprattutto un insieme di idee che il cliente condivide con il designer. Il cliente deve sentire di appartenere e relazionarsi con il mondo in cui sta acquistando, e questo richiede tempo, sforzo e visione per creare.
Sono molto affascinata dall’idea della logomania, probabilmente perché sono cresciuta negli anni ‘90 e l’ho vista evolversi. Ho esplorato la reinterpretazione del “logo” nella mia collaborazione con Daniel Sansavini, che è stato il graphic designer del marchio fin dalla sua nascita. Ci piace giocare con questa idea che ogni collezione abbia un proprio logo, che poi diventa una maglietta grafica, una manipolazione del tessuto, un ricamo, o anche solo un adesivo. La creazione del “logo di questa stagione” mi costringe a pensare a cosa sia la collezione in un’immagine, o in un font, e che quasi sempre apre altre porte, altre idee, altre stampe.
GP: Il tuo lavoro è strettamente collaborativo? Oppure realizzi la prima parte del lavoro da sola? il tuo lavoro inizia dalla collaborazione o da altri tipi di forme? Qual è il processo?
PVF: All’inizio lavoravo da sola, infatti le prime fasi di progettazione di una collezione sono state per me un processo molto personale. Una volta definita la direzione, coinvolgevo le persone passo dopo passo. Recentemente la situazione è cambiata, e ho cominciato ad affidarmi alle persone con cui lavoro. Chiedo spesso opinioni e provo a far circolare le idee. Coinvolgo il mio team dal concetto iniziale fino alla comunicazione.
Condivido una visione specifica con il mio amico Francesco Nazardo, con il quale collaboro spesso. Ha scattato tutte le immagini della nostra campagna fin dall’inizio. Insieme elaboriamo le idee per gli scatti. Lavoro anche a stretto contatto con Delphine Danhier, che negli ultimi anni è diventata un input essenziale per la mia creatività. La realizzazione e la presentazione degli abiti è un processo collegato e collaborativo.
GP: Quanto sono importanti l’inclusione e la comunità nel tuo lavoro e quanto la tua comunità influenza il processo creativo?
PVF: La comunità è estremamente importante per me, che si tratti delle persone che lavorano alle collezioni o di coloro che indossano effettivamente i capi – il mio pubblico, per così dire. Avere un’attività che crea concetti significa condividere idee e crearne di nuove con persone che rispetto profondamente e che provengono da ambienti diversi. Ho avuto la fortuna di creare relazioni autentiche con le persone che ho incontrato e con cui ho collaborato attraverso il mio lavoro, che è assolutamente impagabile.
GP: Puoi condividere la tua idea di “femminilità”?
PVF: Per me la femminilità è la comprensione di sé stessi, l’accettazione della propria delicata natura umana all’interno delle asperità del nostro ambiente. Essere femminili significa essere responsabili dei propri sentimenti e mostrarli – indossandoli con orgoglio, giocando liberamente. È essere chi siamo e sentirsi a proprio agio con questo. Non credo che la femminilità abbia nulla a che fare con i ruoli, il genere o l’orientamento sessuale. Non c’è femminilità se non c’è libertà.
GP: Cos’è l’autenticità per te? Esiste ancora?
PVF: Penso che l’autenticità esista. Se fosse morta non avrebbe senso fare questo lavoro. Essere autentici significa anche avere coraggio. Oggi bisogna essere in grado di avere un dialogo aperto sul proprio punto di vista e sulle proprie convinzioni di esistere in questa mentalità e di sostenerla. Si tratta della vostra storia, e la storia deve provenire da un luogo, da un sentimento o da un’opinione reale. Altrimenti non è interessante. La ricerca di connessioni è ciò che desideriamo come esseri umani – e in ultimaanalisi ciò che vende.