Secondo la mitologia induista le eclissi si verificano ogni volta che la testa del demone Rahu riesce a raggiungere il sole o la luna e a ingoiarli, volando nel cielo. Come racconta il Bhagavata Purana1, Rahu venne decapitato dal dio Vishnu per aver tentato di mescolarsi illegittimamente alle altre divinità, al fine di rubare loro un sorso di nettare celeste che gli avrebbe garantito l’immortalità. Furono il sole e la luna a informare Vishnu dell’inganno, per questa ragione Rahu continuerà a inseguirli in eterno, cercando di vendicarsi. Ogni volta che li raggiunge, il demone li divora, ma non avendo più un corpo, sistematicamente il sole e la luna ricadono giù, scivolando fuori dalla sua gola recisa. “Sun Swallower” – letteralmente “divoratore di sole” – è un’espressione che allude sottilmente a questa storia e che, col suo tono segreto, introduce con efficacia all’atmosfera mistica che avvolge la mostra allestita presso Sant’Andrea De Scaphis, nata da un inedito dialogo tra le opere di Kerstin Brätsch e di Eduardo Paolozzi.
Il sole eclissato, o sole nero, – un riferimento che compare anche in altri momenti della produzione passata di Brätsch2 – è un simbolo ricorrente nella tradizione alchemica, dove sta a indicare il primo stadio della Grande Opera, la “nigredo” o “annerimento” – ovvero la fase di putrefazione della materia, che viene decomposta e ridotta in caos primigenio. Un’attitudine di ricerca quasi alchemica sui materiali accumuna, con declinazioni diverse, entrambi gli artisti, emergendo quale componente essenziale delle opere esposte presso la chiesa sconsacrata di Trastevere: tre grandi sculture in alluminio realizzate da Paolozzi nella prima metà degli anni Sessanta, e un corpus di pezzi selezionati dalle serie dei vetri e degli stuccomarmo prodotte da Brätsch durante gli ultimi dieci anni. I lavori invadono tutto lo spazio del vecchio edificio sacro, occupandone la superficie calpestabile, affollandosi sui muri, calandosi dall’alto soffitto sorretti da bracci meccanici; riempiono il santuario e, verrebbe da dire, lo infestano, come spiritelli sgangherati.
La sperimentazione con l’alluminio – fuso, estruso e saldato – impegna la produzione di Paolozzi a partire dal 1962, quando l’artista italo–scozzese inizia a viaggiare regolarmente verso la Germania, per insegnare nella scuola d’arte di Amburgo. Per realizzare le sculture di questo periodo Paolozzi collabora con ingegneri e saldatori professionisti, insieme ai quali studia il materiale, e con industrie che lavorano il metallo, da cui spesso prende matrici di stampo che utilizza per produrre elementi ready–made, che poi ricombina nelle sue composizioni. L’impostazione compatta e architettonica di alcune opere, come The Twin Towers of the Sfinx – State II (1962), si contrappone alla struttura più disarticolata e mobile di creazioni di solo qualche anno posteriori, come Girot (1964), che si erge alla destra dell’altare come un personaggio dotato di vari arti e molti occhi. Rielaborando riferimenti più o meno espliciti alla storia dell’arte, all’architettura e soprattutto alla cultura popolare di quegli anni, le sculture di Paolozzi celebrano giocosamente il mito della macchina e l’industria, dando vita a idoli–tecnologici che, osservati dopo diverse decadi dal loro concepimento, acquistano una obsolescenza che li rende forse più arcani.
La relazione con i progressi della tecnica si fa invece più sottile e critica nei lavori di Brätsch. Come scrive la curatrice Patrizia Dander, ad esempio, l’interesse dell’artista per il vetro si sviluppa anche in relazione all’onnipresenza di questo materiale nella vita contemporanea, sotto forma di interfaccia. Sono gli schermi dei computer, degli smarphone e degli altri device che mediano la nostra relazione con il mondo sociale3: superfici sensibili e retro–illuminate, proprio come quelle dei lavori in vetro allestiti a Sant’Andrea de Scaphis. Parallelamente, le opere in stuccomarmo, con i loro colori psichedelici, esibiscono una matericità antica, di corpi geologici, che si combina però a una conformazione dell’immagine che ricorda la qualità di motivi astratti generati digitalmente. Entrambe le serie rappresentano un passo ulteriore nella riflessione di Brätsch sulla pittura come linguaggio espanso (e da espandere), e sul concetto di soggettività artistica. In particolare, nel processo di scardinamento della tradizionale nozione di autorialità, risulta centrale per l’artista non solo lo scambio e la collaborazione con altre soggettività – i maestri artigiani suoi interlocutori nella produzione di queste serie4 – ma anche il confronto diretto con la materia stessa (pittorica in senso lato), che si mostra attraversata da una specie di forza cosmica, da un alito vitale, indipendente dalle intenzioni di chi la sta manipolando. Una volta Brätsch ha affermato: “I wanted the painting to stare back at you”5; e di fatto, quando ci si trova all’interno della mostra, si è circondati da innumerevoli volti, che emergono dalla combinazione delle “pennellate fossili” degli stuccomarmo, o dalle composizioni di vetro, pietre colorate e piombo, e scrutano i visitatori in silenzio.
Questa energia misteriosa attraversa l’intero allestimento e si propaga da un’opera all’altra, accendendo corrispondenze tra i singoli pezzi. Se nel complesso le ricerche dei due artisti rivelano inaspettati punti di incontro, anche nella scelta dei titoli, che enfatizzano un certo carattere di per sé chimerico e ineffabile dei lavori, emergono tuttavia anche alcune diversità, tra cui forse la più importante: mentre Paolozzi sembra indirizzare il cammino delle arti verso le tecniche e il progresso dell’industria, Brätsch va decisamente verso un’altra direzione. Ancorando le proprie opere a una dimensione artigianale, l’artista rallenta il proprio ritmo di lavoro, affermando una certa distanza dai cicli di produzione della società tardo–capitalista.