Virgil Abloh avrebbe mai aperto una base lunare su Io? Le Nazioni Unite sarebbero mai riuscite a superare il suo sfacciato appropriarsi di copyright e chiedergli di ridisegnare il proprio logo? La Harvard Graduate School of Design gli avrebbe mai chiesto di progettare un nuovo campus? Gli haters direbbero no, milioni di fan urlerebbero sì, e noi critici, annuendo agli opening, con una certa riluttanza gli riconosciamo una genialità. Si sarebbe mai candidato come presidente? Oppure si sarebbe semplicemente goduto il suo tempo al meglio lavorando per Louis Vuitton fino al 2050 per poi ritirarsi a giocare a scacchi con un paio di ammiratori, come il suo eroe Duchamp, in una serie di infiniti e meritati pomeriggi?
Virgil Abloh ci ha lasciati il 28 novembre, e questo fatto è assurdo quasi quanto svegliarsi in un mondo senza di lui. Tale era la sua presenza nell’ecosistema creativo che in realtà è davvero difficile immaginare quel mondo senza di lui. Un mondo dove le barriere tra lusso, commercio su scala planetaria, arti visive, streetwear e sogni modernisti coesistono non solo sullo stesso piano, ma come stringhe di uno stesso cappuccio, pronte ad essere legate a mo’ di fiocco intorno al collo. Svegliarsi senza di lui è come svegliarsi in un mondo senza Post-It (se i Post-It fossero incredibilmente bravi a mandare sms!).
Per un decennio è stato dovunque e chiunque. È stato un DJ, un contrabbandiere di T-shirt, un architetto, un artista, un curatore, un insegante, un designer. In qualche modo ha trasferito le sue conoscenze tra le discipline in modo intercambiabile. Ascoltando le sue lezioni e le sue interviste, sorprende quante volte abbia usato l’espressione “l’idea di” – l’idea dello streetwear, l’idea del lusso, l’idea del processo, l’idea dell’idea. Come se ogni media, qualunque cosa, potesse essere trasformata in qualcos’altro; come se cogliendo la velocità del feed e l’idea dietro a un gesto, si potesse inserire un nuovo oggetto nel feed, modificandolo e cambiando così il mondo. In questo modo tentava di capire se stesso, come cerca di fare ogni grande designer.
Nel frattempo, ha anche trasmesso due messaggi:
1. Il mondo non è un edificio, ma l’immagine di un edificio su internet, dietro la quale esiste un codice sorgente che può essere riscritto.
2. Essere gentili è una tecnologia.
Quello che adesso mi colpisce è che il suo lavoro è molto meno cinico di quanto potessimo pensare. La sua pratica è stata radicale e al servizio di un mondo migliore per moltissime persone. Il lavoro di Abloh si colloca su una lunga linea di design utopico che risale al suo mentore Mies van Der Rohe e guarda oltre, verso chi ha iniziato il proprio percorso nel design grazie a un post di Off-White su Instagram, e chi deve ancora essere ispirato dal suo lavoro e dal suo pensiero. Più di quasi chiunque altro in vita, Abloh è stato in grado di capire il corso e il flusso della storia, ma anche che il meglio deve sempre arrivare, che ci sono geni in ogni generazione e nei cortili di ogni scuola. Era un tipo da “bicchiere mezzo pieno”, diceva di se stesso, quindi brindiamo a lui.
È così triste pensare che non potrà più fare tutte le cose incredibili che avrebbe dovuto fare. È così triste pensare che abbia toccato così tante vite e che ora non c’è più. Mi manca, anche se non l’ho mai conosciuto. Il mio affetto va a tutti quelli che hanno avuto il privilegio di conoscerlo.