Marco Conoci “Rivers” le vite / Milano

17 Luglio 2024

Se si è deciso di sostituire le figure umane, soggetto ricorrente di queste tele, con delle mappe è stato solo per un bisogno di chiarezza. Legare il quadro ad uno strumento come la mappa comporta una serie di vantaggi. Prima di tutto, la mappa intrattiene con il suo contenuto un rapporto specifico in cui uso e rappresentazione costituiscono un senso imprescindibile e poi che tale rapporto continua sempre a rinviare alle superfici sulle quali le mappe si dispiegano. Ogni mappa è un pò una mappa marittima o, perlomeno, è in esse che una qualità comune a tutte le altre è resa ancora più evidente. Questo perché in topologia al mare viene fatto corrispondere il livello zero oltre al quale tutte le differenze di altitudine si distribuirebbero. Ma tutte le immagini di vetta o di baratro che possiamo incontrare non si distaccano mai dalla superficie sulla quale continuano sempre ad insistere. Ne sono un suo effetto o una passione, tra le quali ci spostiamo per prossimità, scivolando per adiacenze da una zona all’altra o da un effetto all’altro. È proprio in virtù di tale annullamento delle differenze di altitudine che ogni mappa riscopre la sua dimensione costiera, il suo essere intrinsecamente strumento della superficie. Oltretutto tale livellamento sembra ben accordarsi alla natura burocratica di questo strumento. Ognuno dei soggetti nei quadri, infatti, proviene dai siti dei centri di ricerca idrogeologici delle rispettive nazioni, che sono liberamente consultabili da tutti. Si presentano come un territorio comune ideale, standardizzato, secondo un linguaggio necessario in virtù della loro funzione. Per questo era giusto cominciare dal mare, da quella zona in cui le tratte mercantili proliferano e dove il linguaggio subisce un’uniformazione sotto l’effetto della necessità comunicativa, analogia del linguaggio comune che sega via tutto ciò che c’è di specifico e minoritario.

In effetti il mare non è che una tappa tra quelle che il fiume percorre, solo una delle passioni che lo compongono. Per quanto sia fondamentale riaffermare le caratteristiche di quell’evento, il fiume si costituisce anche di altri e anzi verrebbe da dire che è esso stesso una serie o un tracciato che si descrive collegando specifici eventi topologici. Si è deciso dunque di risalire controcorrente il corso del fiume, facendo coincidere questa progressione con la realizzazione vera e propria, nel tentativo di giungere alla fonte. In questo senso essa non suona meno di una promessa di tornare finalmente completi, integri, e pare quasi si sentirla chiamare facendoci cenno di proseguire. Tale esito è comunque da escludersi, non solo perché ogni fonte è stata volutamente estromessa dalle mappe, ma perché a forza di darsi in errori, procedendo attraverso di essi, si finisce per perdersi lungo il tracciato che si prolunga sotto i colpi di una maldestrezza che estende, scricchiolante, una spaccatura lungo la superficie.

Tutto qui sembra voler fuggire, scappare il più lontano possibile. Eppure, quella sorgente che ci era stata prescritta non è stata estromessa per una strana forma di sadismo, ma perchè essa in realtà non è mai stata veramente raggiungibile. L’evento della fonte sembra risuonare con una ferita molto più interna, terribilmente intima eppure così indifferente a noi stessi, che più cerchiamo di esprimere con il linguaggio comune più essa ci sfugge. Il tentativo di tornare completi è, in definitiva, impossibile. In questo modo ogni errore o sparizione produce delle intensità che si distribuiscono lungo tutta la superficie, come un eco. Ciò che è paradossale è forse questo desiderio che non ci stanchiamo di riaffermare, di continuare a proporre come soluzione, il disfarsi o lo straniarsi del linguaggio e degli scopi, del distruggersi da sé, è tale nella misura che si protrae a favore di qualcosa di essenziale che non può esser detto ma solo verificato come effetto delle superfici nel disfacimento stesso della rappresentazione.

Quello che in definitiva ci resta, qui ai bordi delle cose, non è altro che una serie di effetti ed intensità, approssimarsi della ferita, aperti da una serie di fallimenti che li rendono possibili. Non resta che correre lungo il tracciato, divenuto linea di fuga minoritaria che, attraverso un mal dire, permette di rompere con l’uso del linguaggio comune in modo da ritrovare tale ferita non più rappresentata ma sotto forme intensive. La chiarezza che andavamo cercando era quella che potesse in qualche modo garantire alle superfici di cui ci occupiamo un talento strumentale pronto però ad essere manomesso, costituendo un campo in cui è possibile far emergere, indipendentemente dalla volontà cosciente, le forze intensive del reale. In questo senso una diade definisce l’orizzonte, nel rivelare-rilevare tali forze. Ognuna delle topologie non sono altro che questo evento, che non sarebbe altrimenti perchè non sussiste in nessun’altra dimensione se non in quella della superficie stessa. Dopotutto non c’è mai stata nessuna profondità interiore da esplorare e tutto è sempre stato solo un fatto di superfici.

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