La pittura di Valerio Adami, con la sua intelligenza e i suoi referenti culturali molteplici — sia nell’ambito del moderno che della tradizione classica — produce questo paradosso: quello di intorpidire l’interpretazione dandole vita. I professionisti del deciframento possono articolare a questo proposito le più svariate interpretazioni, per il loro piacere e spesso anche per il nostro. Una volta ancora Hermes e il Logos si identificano e l’interpretazione infinita ricomincia; con una sottigliezza senza paragoni, Valerio Adami contribuisce lui stesso ad alimentarla. Non ha forse proposto una volta delle “didascalie” alle proprie tele? Non parla forse del suo lavoro come di uno sforzo per costruire delle proposizioni pittoriche sulle quali la sottigliezza dello spettatore verrà ad innescare le proprie didascalie? Ma non dice anche, in maniera più insidiosa, che le spiegazioni che dà della sua pittura, le risposte che dà alle domande, non danno una poetica o le regole di produzione ma… non fanno che apportare un’ulteriore confusione.
Forse si potrebbe rovesciare il punto di vista e chiedersi se è veramente delle significazioni della pittura di Adami che conviene parlare. È certamente un paradosso, e consapevole di essere tale, ma che deve essere rapportato al fatto che non si ha in generale niente da dire su quelle cose e, in particolare, su quest’altra cosa che è, molto semplicemente, la pittura. Rimane il dubbio che la complessità di significazioni delle tele di Adami si basi su dei giochi di una pratica che la sa lunga su molte cose e, fra le altre, su se stessa.
Fra gli effetti del testo, delle parole, della calligrafia, del titolo, i richiami metonimici violenti, le distorsioni e le fratture dello spazio, le citazioni culturali troppo chiare o troppo poco chiare, il sapere di una psicanalisi supposta come conosciuta o supposta come saputa, c’è ampiamente da articolare i nostri fantasmi su delle mitologie quotidiane. È a questo proposito che bisogna sottolineare che Adami è riuscito là dove la Pop Art ha in parte fallito: innestando la dimensione individuale del desiderio negli stereotipi del quotidiano. Forse bisogna rapportare a questo doppio gioco, a questo gioco su due quadri, il fatto che Adami possa essere allo stesso tempo un pittore ermetico ed un pittore pubblico, riconosciuto sia da un largo pubblico che da una raffinata élite. Sussiste tuttavia l’enigma della pittura, di ciò che in essa permette di sostenere questi doppi giochi. È precisamente questo terreno ad essere oggi il meno esplorato. L’intervista che accompagna questo testo ne riconosce alcune cose, anche se con molte reticenze.
Adami, ed è quasi un luogo comune, è un grande disegnatore. Ma bisogna anche andare oltre, bisogna sapere tutto ciò che il suo lavoro ammette di sottrazione, di cancellazione, di trattenuto. Comincia con il disegno, che permette definizione e precisione, con una molteplicità di annotazioni che vengono progressivamente semplificate, ridotte, cancellate — bisogna vedere come le carte preparatorie portano i segni di queste cancellature. Questi pentimenti non avvengono che al prezzo della definizione: devono portare al disegno finito, mantenere solo l’essenziale, guardare solo alle strutture dell’azione. Si tratta per Adami, fedele alla più pura tradizione classica, ad esempio quella formulata dall’Alberti, di dare anche l’istoria, l’articolazione degli elementi; ciò che egli chiama in termini più attuali la proposizione pittorica. Ma non c’è bisogno di dettagli superflui e tutta questa composizione della proposizione pittorica, la delineazione dell’istoria, ha a che vedere con una formalizzazione: ne mantiene solo le relazioni logiche e razionali. È precisamente in questo senso che il disegno definisce, elabora e costruisce la forma. Il disegno corrisponde dunque per Adami alla struttura logica del quadro e, qui, bisogna richiamarsi a Wittgenstein: non per nulla si tratta di “proposizione pittorica”: il disegno fornisce la forma logica della proposizione pittorica, un’immagine formata in qualche modo. Come dice lo stesso Tractatus: “Alla configurazione di segni semplici nel segno proposizionale corrisponde la configurazione degli oggetti nella situazione” (proposizione 3.21).
Fino a questo punto non c’è niente di più classico e di più tradizionale, salvo che la configurazione degli oggetti nel mondo che noi conosciamo non è necessariamente né molto logica né molto razionale. C’è frastuono di avvenimenti, di punti di vista differenti ed antagonisti, di rumori che si incrociano, si ricoprono, di parassiti, di ronzii, registri dissonanti di archetipi, di simboli, di referenti. E la forma logica delle proposizioni non può più essere la stessa. È necessario che sia logica e illogica allo stesso tempo, razionale ma anche irrazionale.
Joyce incontra Freud che conosceva Poussin, il quale ha letto le Favole di Esopo mentre andava negli Stati Uniti. E così che le proposizioni disegnate da Adami hanno più sfaccettature. Esse non saranno dirompenti: la disseminazione non vuole significare una qualsiasi rinuncia a totalizzare. Al contrario. Quando Adami si dice classico, bisogna credergli. Lo si sospetterebbe, talvolta, anche di aver letto molto Hegel o Croce. Perché le sue proposizioni pittoriche si sforzano di rappresentare questa grande confusione, di darne prospettive plurali. È a questo punto che interviene il cubismo. Adami stesso lo riconosce: l’interesse del cubismo è di aver voluto rappresentare l’oggetto visto simultaneamente da molteplici facce. Lo storico dell’arte potrebbe dissentirne affermando che il cubismo fu all’inizio un’altra cosa. Ma fu quasi subito interpretato in questo modo, in questa prospettiva panoramica, legata d’altra parte alla presa in considerazione affascinata della modernità tecnologica e in particolare dal futurismo. Visto sotto questa luce, il cubismo diventa una specie di tecnica di iper-rappresentazione per tempi più sapienti e più urgenti, a meno che ciò non sia, al contrario, per un tempo di transizione incapace di trovarsi nel flusso degli avvenimenti. Un modo di articolare ancora la confusione o di credere di articolarlа. E rimanendo fedele a questa lezione del cubismo che Adami moltiplica prospettive e frammenti diversi, ma in rapporto ad un tempo in cui non vi è più una sola visione, dove le parole, le frasi, le citazioni, gli stereotipi, i simboli proliferano. Si potrebbe dire che coltiva, con cognizione di causa, una problematica della visione per applicarla ad una concezione più generale e più complessa della proposizione pittorica.
Con l’apparente paradosso che non c’è niente di più classico di questa volontà di rappresentazione, ma niente di più moderno della sua coscienza di pluralità delle determinazioni che devono iscriversi in essa, si comprenderà allora perché in particolare in queste ultime tele, le cose girano e si torcono con una specie di barocchismo. In fondo Adami non ermetizza: egli si impegna a rappresentare un mondo divenuto ermetico.
Si arriva così al ruolo del colore. Nell’intervista che ci ha concesso, Adami non cessa di ritornarvi per tentare subito di fuggirvi. Il colore lo affascina… ma l’essenziale è il disegno. Il colore interviene per perturbare tutto e per rimettere tutto in gioco… ma il disegno è il solo razionale perché definisce. Bisogna ritrovare il grande stile… ma se l’umile atto di stendere il colore poteva riempire la vita… Il paradosso va così lontano che Adami si richiama a Delacroix per fare l’apologia del contorno e rendere così omaggio a Gustave Moreau, che “disegnava con i colori”. Finalmente tutto ciò non sorprende più, perché il colore per Adami ha uno statuto molto ambiguo. Interviene con una violenza senza pari in grandi superfici piatte, senza la minima traccia di una fare soggettivo — che si rifugia nelle sinuosità del contorno o nell’eleganza della calligrafia — e bilancia tutte le strutture costruite dal disegno. Il colore altera le prospettive, induce a nuove e ingannevoli profondità, suddivide la superficie riportandola instancabilmente alla banalità dell’oggetto quadro. Ma questa violenza è contenuta dalle strette delimitazioni dei contorni che impediscono ai colori di traboccare da esse. I contrasti più sgradevoli restano impuniti o “di buon tono”. Il colore, effettivamente, viene a rimettere tutto in gioco una volta di più, ma Adami diffida di esso come della peste e davanti a quest’ultima “messa in crisi” si comporta come se non dovesse trarne troppe conseguenze. Resta da sapere se, non pittoricamente ma teoricamente, quest’ultima crisi ha un significato importante. Il disegno definisce, enuncia, occupa il posto del pensiero. Articola impavidamente una pluralità di aspetti diversi e molto spesso dissonanti in una “irrazionale e illogica ma razionale e logica composizione”. Come se il mondo, dunque, avesse un senso, come se nella confusione ben ordinata delle significazioni fosse possibile formulare un ordine, anche sufficientemente ermetico. Ma così era una finzione? Se malgrado “la grande confusione supplementare” delle “didascalie”, l’ordine facesse troppo prevalere le sue illusioni? Ci vorrebbe allora un po’ di confusione — quella che in extremis porta il colore rimettendo ancora tutto in gioco. Un modo per ricondurre le proposizioni cubiste e le prospettive troppo dotte alla superficie della pittura. In una specie di ultima degenerazione: non era per spiegare, era, e, della pittura: malgrado le apparenze, la confusione è realmente al suo apice. E così la sottigliezza di Adami toccherà le sue estremità in tutti i sensi del termine: toccherà l’apice della confusione avendo ridotto tutto al minimo della razionalità. Al punto in cui, malgrado la necessità di cui abbiamo parlato, non è più così agevole da pensare, in quanto si tratta dell’ultima sfida che costituisce e contemporaneamente esprime il colore.