La Linea Insubrica è un’imponente faglia geografica che si estende per oltre mille chilometri da Est a Ovest tracciando il confine tra le Alpi Centrali e le Alpi Calcaree Meridionali. Un solco millenario che attraversa il Canavese, la Valtellina, il passo del Tonale fino alla Val Pusteria, segnando il punto di incontro tra la placca tettonica europea e quella africana. Il nome deriva dall’Insubria, regione storica abitata dagli Insubri, antica popolazione protoceltica che si stanziò in queste terre migliaia di anni fa.
È proprio da questo potente simbolo geografico e culturale che nasce la prima mostra del progetto curatoriale triennale di Lucrezia Cippitelli e Simone Frangi: “La Linea Insubrica/ The Insubric Line”. The Invention of Europe (2024-2027) ospitata da Kunst Merano Arte e con la partecipazione degli artisti: Liliana Angulo Cortés (Bogotá, Colombia, 1974), Binta Diaw (Milano, Italia, 1995), Francis Offman (Butare Ruanda, 1987), Vashish Soobah (Catania, Italia, 1994), The School of Mutants (2018), Alessandra Ferrini (Firenze, Italia, 1984), Abdessamad El Montassir (Boujdour, Sahara Occidentale/Marocco, Sammy Baloji (Lubumbashi, Congo, 1978), Ufuoma Essi (Londra, UK, 1995), Kapwani Kiwanga (Hamilton, Canada, 1978), Betty Tchomanga (Charente-Maritime, Francia, 1989).
Aurora Mina: Il progetto prende ispirazione dalla provocatoria espressione coniata dal filosofo congolese Yves Valentin Mudimbe “Invention of Africa”1, la quale sfida e decostruisce l’idea di un’Africa eurocentrica ed esotizzante inventata dai poteri coloniali. Così la mostra collettiva, inaugurata lo scorso giugno, si trasforma in uno strumento critico e intersezionale in grado di scomporre l’immagine monolitica dell’Europa. La “Linea Insubrica” è il punto di partenza della mostra e, allo stesso tempo, una potente metafora. In che modo questo luogo-geopunto vi ha permesso, all’interno del progetto curatoriale, di smantellare la visione eurocentrica tradizionale e liberarvi dal concetto di “purezza” europea?
Simone Frangi: La nostra intenzione era quella di creare un progetto a lungo termine che coinvolgesse artiste, artisti e practitioners di vario genere, capaci di usare strumenti sia teorici che pratico-creativi per riflettere sul tema. In questo primo capitolo della mostra, abbiamo avuto la possibilità di confrontarci direttamente con il territorio. È stata un’opportunità per vivere e studiare Merano, scoprendo quanto sia un luogo costruito attraverso processi di esclusione e finzione. L’Europa, così com’è stata immaginata, si fonda su appropriazioni di risorse, persone, forza lavoro… Volevamo trovare un segno che non fosse solo una metafora, ma anche un simbolo concreto che ci parlasse di questo posto specifico e, al contempo, di un contesto più ampio. La Linea Insubrica ci è sembrata perfetta: è un geo-punto che attraversa il territorio, una prova tangibile che il materiale biologico, umano e non, presente qui, ha una provenienza africana che non possiamo più ignorare.
Lucrezia Cippitelli: Sì, quando abbiamo scelto la Linea Insubrica, pensavamo a questioni molto specifiche come l’integrazione delle persone non bianche nella comunità. A Merano ci sono interi quartieri abitati da persone che vivono qui da due o tre generazioni, ma che ancora oggi non hanno avuto l’opportunità di raccontare la loro storia.
Claudia Basini: Esattamente. Qui si vede una spaccatura sociale netta, tra contraddizioni evidenti e poca apertura al dialogo. Durante la mostra, ad esempio, nei post-it del collettivo School of Mutants, il pubblico ha lasciato commenti razzisti che ci hanno fatto capire quanto sia urgente mettere in luce questa ferita ancora aperta.
L.C: Esatto, e con la performance di School of Mutants vogliamo parlare proprio a queste comunità. Ci piacerebbe che si unissero alla parata, con un coinvolgimento attivo, anche per raccontare la loro storia.
A.M.: Secondo voi, la frattura sociale di cui parlate è dovuta a una mancanza di educazione o c’è dell’intenzionalità? Qual è il processo per ripristinarla?
C.B.: Personalmente penso che il problema stia nell’educazione, o meglio, nella sua mancanza. Le istituzioni scolastiche e universitarie spesso non strutturano adeguati programmi su temi come l’antropologia, la filosofia o l’educazione affettiva, che al contrario potrebbero aiutare i giovani a sviluppare un senso critico sul passato coloniale dell’Europa e sulle sue implicazioni nel presente.
A.M.: Concordo. Manca proprio lo scambio di idee tra studenti e insegnanti, ed è come se vivessimo in una società che si nutre della costante necessità di autoaffermazione, senza mettere in discussione i propri costrutti.
S.F.: In mostra, ci sono molti spunti legati all’aspetto pedagogico, come nel lavoro di Alessandra Ferrini, che nel film Negotiating Amnesia (HD video, 2015, 29′:59″) affronta proprio la mancanza di informazioni nei libri di testo italiani riguardo al fascismo e al colonialismo. Il lavoro del collettivo School of Mutants, invece, cerca di uscire dai contesti accademici e museali, per invadere gli spazi cittadini e intercettare quei saperi spesso delegittimati.
A.M.: Ci sono state esperienze personali che vi hanno portato a scegliere questo tema?
S.F.: Questo progetto è nato come evoluzione del nostro libro Colonialità e culture visuali in Italia (Mimesis, 2021). Abbiamo voluto renderlo più concreto, ampliando il discorso non solo al territorio italiano, ma all’Europa nel suo insieme. Già nel libro ci siamo confrontati con queste tematiche, e la mostra è stata l’occasione per mettere insieme artisti, produttori culturali e studiosi in un’intelligenza collettiva. La nozione di Comunità evolutiva 2 fa riferimento ad un tipo di comunità il cui legante non è l’identità ma la prossimità, ed essa è costantemente in evoluzione. Anche lo spazio museale è uno strumento e agente attivante a livello sociale, non ha valore in sé, e questa non è un’istituzione verticistica ma al contrario molto malleabile ponendosi come istanza critica nel territorio per dare voce alle narrazioni che spesso non troviamo oppure vengono ridotte a tema di mostre. Abbiamo quindi la possibilità di sperimentare istituzionalmente, grazie proprio alla sua organizzazione.
L.C.: È stato un percorso naturale per noi. Abbiamo iniziato il progetto con un gruppo di studenti a Brera, in risposta all’invito del direttore del biennio, il professor Ferrari, e ciò ci ha uniti, mettendo in luce le nostre inquietudini e la volontà di creare un dialogo continuo. Non ci vediamo come curatori autoritari, ma piuttosto come persone che imparano costantemente dagli artisti e dai loro punti di vista.
C.B.: Come avete scelto gli artisti?
S.F.: Siamo stati attratti dalle loro pratiche più che dagli oggetti artistici. Il nostro approccio è sempre processuale. Per esempio, volevamo riportare Alessandra Ferrini a Merano perché la sua ricerca sull’italianizzazione, iniziata a Bolzano, non era stata esauriente. E poi c’era la volontà di lavorare con artisti della diaspora, in particolare afro-italiani, per spostare leggermente il focus. Invitarla ci sembrava importante per far capire che l’Africa non è un luogo contenuto nei suoi confini, ma è altrove, ovunque, anche qui, per via della storia della tratta.
L.C.: Lavoriamo con chi condivide con noi una sorta di alleanza politica e un’amicizia. È una questione di fiducia e di camminare insieme in un progetto comune. Per noi, non si tratta solo di fare una mostra, ma di creare connessioni che abbiano un impatto reale.
A.M.: Quali difficoltà avete riscontrato lavorando in un territorio così diviso?
L.C.: Una delle difficoltà maggiori è stata capire come comunicare il progetto a una comunità che, in un certo senso, si chiede ancora perché coinvolgere così tante persone straniere. Quando abbiamo sentito la domanda: “Perché lavorare con così tanti artisti africani?”, ci siamo resi conto che c’è ancora un forte pregiudizio legato all’alterità.
S.F.: Esatto. Ma pensiamo che il nostro lavoro avrà un impatto a livello internazionale. Stiamo dialogando con istituzioni in Europa, come ad Amsterdam, che lavorano su questi stessi temi. In Italia, la questione coloniale e neocoloniale è ancora un peso enorme, e la cultura ha il compito di creare una maggiore lucidità.
C.B.: Il progetto curatoriale ha coinvolto attivamente nella curatela e nella produzione della mostra gli studenti e le studentesse del biennio di Visual Cultures, dell’Accademia di Belle Arti di Brera. Cos’ha rappresentato per voi l’esperienza e cosa ha apportato la nostra partecipazione al progetto?
S.F.: Per noi, lo spazio in cui lavoriamo ha sempre un’importante dimensione pedagogica. Non si tratta solo di un classico scambio formativo tra università e istituzione, ma di un processo di apprendimento reciproco. Impariamo dai giovani, dal loro sguardo fresco e aperto, dalle loro esperienze e dalla loro capacità di risolvere questioni che per noi sono ancora in fase di discussione. Senza il loro contributo, non avremmo potuto farlo.
L.C.: Il fatto di trovarci qui oggi, a continuare il dialogo e a costruire nuove alleanze, dimostra quanto questo progetto sia vivo. Non si tratta solo di una mostra, ma di un lavoro che cresce, che ha una forte dimensione sensoriale. Abbiamo cercato di bilanciare teoria e pratica, con materiali tessili, fibre viventi, pittura, suoni… Vogliamo che il pubblico non si senta solo spettatore, ma che entri in contatto con una dimensione estetica che possa insegnare qualcosa, che avvicini invece di respingere.