Tra le dita di un uomo che fuma compare, inattesa, la sagoma di una stella. La foto scattata da Claudio Abate durante una dimostrazione di Emilio Prini, reintitolata dall’artista Monaco ’71 (CasoFotografico), figura tra il materiale d’archivio esposto in una vetrina al centro di “Emilio Prini Typewriter Drawings. Bologna/München/Roma 1970/1971” a cura di Luca Lo Pinto, Timotea Prini e Andrea Viliani presso la Fondazione Antonio Dalle Nogare di Bolzano. A costituire il nucleo centrale della mostra, oltre ai documenti fotografici, è un gruppo di opere inedite su carta, realizzate da Prini nel contesto di tre mostre: “Gennaio ’70 – comportamenti, progetti, mediazioni” (Museo Civico Archeologico, Bologna, 31 gennaio – 28 febbraio 1970), “Arte Povera – 13 Italian Artists” (Kunstverein München, 26 Maggio – 27 Giugno 1971) e “Merce Tipo Standard” (Galleria L’Attico, Roma, 20 Novembre 1971).
Le opere, realizzate su fogli di formato lettera principalmente con l’utilizzo di una macchina da scrivere Olivetti 22, sembrano costituire, a un primo sguardo, semplici composizioni di elementi grafici che, alternandosi, danno vita a motivi vagamente ornamentali. A una lettura più attenta le opere rivelano essere partiture che scandiscono il ritmico accendersi e spegnersi di televisori all’interno di alcune video-installazioni dell’artista, secondo la sequenza numerale di Fibonacci. Su queste pagine campeggia, talvolta, qualche appunto trascritto a mano – formule, disegni e citazioni – che attribuiscono alle immagini uno statuto ambiguo d’opera/documento, di qualche cosa a metà tra il lavoro e il lavoro preparatorio. Appunti di natura forse privata, e per questo mai esposti prima, riesumati dall’archivio Prini nel tentativo di gettare una luce inedita sul lavoro di un artista intorno al quale, da alcuni anni, si concentra lo sforzo della comunità artistica di riattivare un discorso critico. Dopo le retrospettive alla fondazione Merz e al Macro, la mostra “Emilio Prini Typewriter Drawings. Bologna/München/Roma 1970/1971” costituisce un ulteriore tentativo di analizzare il lavoro di un’artista spesso definito sfuggente, che in vita ha eluso interviste, negato la pubblicazione di cataloghi, e ostacolato ogni sistematizzazione critica del proprio lavoro, rendendo così paradossalmente determinante il ruolo della posterità nel decretarne il valore artistico. Valore che l’artista contrappone sovente al mero valore d’uso della “merce” artistica nelle opere in cui mette in evidenza il meccanico esaurimento delle macchine di cui si serve al fine di operare quella transustanziazione della materia che dà vita all’opera. Come nel lavoro esposto a Monaco, e qua riproposto in una serie di fotografie d’archivio, in cui l’artista, con l’aiuto di un tecnico, smonta e rimonta un televisore Blaupunkt, ipotizzando che l’usura prodotta nel processo, produrrà un’alterazione nella capacità dello strumento di emettere informazione luminosa, o l’opera dal titolo Standard 1969 (L’U.S.A. USA) costituita da una serie di stampe in formato quotidiano che recitano: “Il registratore registra a consumo del meccanismo. Un registratore usato che usa apparecchiatura usata registra a consumo del meccanismo”. Formula che descrive l’esaurimento progressivo di un registratore, alludendo all’usura della stessa rotativa tipografica con la quale è realizzata.
Il bianco, rosso e nero utilizzati nelle carte, corrispondenti ai colori dell’itinerario alchemico, ci fanno presumere una natura esoterica della ricerca artistica di Prini, che si serve delle macchine e degli impersonali prodotti dell’industria come fossero gli alambicchi con cui mettere in luce, per poi trascendere, la loro fredda materialità. Un televisore diviene così uno strumento, non per perpetrare la cultura dell’intrattenimento e dell’informazione, ma per dar vita a magiche sequenze ritmiche di emissioni luminose. E una semplice stella, che si staglia tra le foto d’un suo vernissage, è un mistero che sfugge alla pura analisi dei processi produttivi a cui, dissimulando, Prini pare voler ridurre il proprio lavoro.