Alcune curatele permettono una nuova comprensione delle opere grazie all’attrito organizzato tra di esse nello spazio espositivo, che può portare a rivalutarle o attualizzarle, o addirittura a suggerirne una meta-lettura. La proiezione del pensiero del curatore, più o meno visibile e rilevabile nello spazio a seconda della mostra, permette tale rilettura, accettando il rischio di riaprire l’annoso dibattito sul ruolo del curatore.
Come scrive Emma Lavigne, direttrice della Collezione Pinault e curatrice, nel catalogo di “Arte Povera”, la mostra presso la Bourse de Commerce di Parigi, che riunisce oltre duecentocinquanta opere di uno dei movimenti artistici essenziali della Storia dell’Arte, ancora oggi una delle principali fonti di ispirazione nel campo dell’arte contemporanea: “Esporre l’Arte Povera è una sfida, uno scambio costante tra il pubblico, gli artisti e le persone coinvolte in questa avventura. Come evitare di musealizzare queste opere, che sono viste come stati metamorfici e instabili della materia? […] Come possiamo rendere percepibile l’energia che le attraversa?”
La curatela di Carolyn Christov Bakargiev attualizza la rilettura dell’Arte Povera, dialogando con queste problematiche ed evidenziando i legami, le complessità, le intersezioni e le prospettive tra le opere e gli artisti. Questa coerente visione organizza la mostra, che si articola intorno alla presentazione del lavoro di tredici tra i principali artisti dell’Arte Povera: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio.
La mostra è strutturata sul modello della stella a cinque punte ripreso da “Stella” (1972–in corso), serie di Gilberto Zorio di cui sono qui presentate due varianti storiche. Al centro della stella, al piano terra, una vasta installazione collettiva si dispiega all’interno della sala rotonda della Bourse de Commerce, riecheggiando le prime mostre dell’Arte Povera. Le sale laterali (le punte della stella) sono invece concepite come mostre personali, dedicate a ciascun artista.
Nella sala collettiva, le opere sono disposte in un cerchio che stabilisce connessioni visive tra i lavori, anticipando le relazioni più intime della sale individuali. La mostra propone una rilettura di Igloo con albero (1968–69) di Mario Merz, una delle sue prime opere di questo tipo. L’igloo sembra creare una “cupola nella cupola”, un universo all’interno di un altro, un cerchio nel cerchio, dialogando perfettamente con gli affreschi della Bourse de Commerce.
Questo cerchio combina l’iconica orizzontalità di opere come Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 (1969) di Alighiero Boetti, Lo spirato di Luciano Fabro, (1968–73) e Senza titolo (Carboniera) (1967) di Jannis Kounellis, con quella di opere meno note come Piombo Rosa (1968) di Pier Paolo Calzolari, una grande lastra di piombo diventata rosa, o Senza titolo (1967), la sua prima struttura di glassa su un rettangolo di erba artificiale. Da questo cerchio sormontato da Macchia (1968) di Zorio, emerge anche l’inaspettata verticalità dei rami di Igloo con albero e dei neon di Senza titolo (Il fulmine colpisce il campo) (1969–79) di Merz, ma anche quella di opere più recenti, tra cui Autoritratto (1993–94) di Boetti, una scultura in bronzo che sparisce tra i vapori attivati da un tubo da giardino brandito dalla scultura stessa, e Mimesi (1975–76), di Giulio Paolini, due calchi in gesso identici di un’antica statua di Venere che si fronteggiano.
Quest’interpretazione massimalista evoca alcuni momenti del Deposito d’Arte Presente (Torino, 1968–69), di cui troviamo nel catalogo alcune immagini in cui le opere erano presentate in una profusione barocca. Il risultato è una visione gioiosa dell’Arte Povera, più filosofica e fenomenologica, persino esoterica, che politica, spostandosi dall’interpretazione militante di Germano Celant per concentrarsi sul contrasto tra i due poli formali e concettuali di questo movimento.
Nella sala dedicata a Mario e Mariza Merz, i tre igloo creano un gioco di riflessi ed echi con opere come Crocodilus Fibonacci (1972) e Senza titolo (Una somma reale è una somma di gente) (1972), appese alle pareti. Da qui si sviluppa una vasta sezione dedicata a Michelangelo Pistoletto, caratterizzata da confronti e riletture storiche che trasformano profondamente la percezione del visitatore dell’Arte Povera.
Questa sala, costruita intorno a un gioco di specchi, mette in contrasto la rotondità volutamente imperfetta di Mappamondo (1966–68) con la geometria perfetti del cubo di Metrocubo d’infinito (1966). Il dialogo tra le forme offre un’analisi sorprendente, che si espande in opere come La gabbia (1974), una serigrafia a forma di griglia applicata su un ampio specchio che si estende quasi per tutta la lunghezza dello spazio espositivo. Il motivo della griglia, che richiama quello presente attorno a Mappamondo, sembra ripetersi in Tenda di lampadine (1967), una struttura attraversabile fatta di fili elettrici e lampadine. Questo continuo rimando visivo prosegue con i “Quadri specchianti”, tra cui Sacra conversazione (Penone, Zorio, Anselmo) (1962–74) e Il presente – Uomo di schiena (1961). Questi lavori dissolvono definitivamente i confini tra realtà e riflesso, aprendo nuove prospettive sul processo di lavoro dell’artista e sul ruolo dello specchio nella sue opere.
Anche opere come Catasta (1967) di Boetti vengono reinterpretate in chiave massimalista, accostandole a lavori più piccoli, come 8,50 (Zig-Zag) (1966), mentre altre tre sculture in legno di forme diverse ampliano la riflessione sull’uso delle forme da parte di Boetti nel suo lavoro.
Altrettanto suggestiva è la sala dedicata a Giulio Paolini, costruita intorno a Disegno geometrico (1960), una piccola tela ricoperta di zinco bianco con linee diagonali generalmente utilizzate per creare la griglia delle tele. L’opera è qui esposta su un cavalletto di legno al centro della sala, sul cui pavimento è tracciato con carta adesiva di diversi colori lo stesso motivo di linee diagonali a stella dal forte valore simbolico, se non esoterico, che sembra distribuire le opere nello spazio.
Luciano Fabro è rappresentato in questa mostra da opere come Ogni ordine è contemporaneo d’ogni altro ordine (1972–73), un insieme ermetico di quattro opere di grandissime dimensioni realizzate in china su carta che richiama la facciata della Chiesa del Santissimo Redentore a Venezia. L’opera dialoga da vicino con Paio di lenzuola con due federe (1968), costituita da elementi montati su una cornice di legno appesa alla parete, e il pezzo unico Vetro di Murano e shantung di seta pura (Piede) (1968–72).
La sala dedicata a Pino Pascali, una delle ultime, si concentra su una serie di sculture“ante-poveriste”. Questi lavori sostituiscono materiali tradizionali come il marmo con tele tese su strutture lignee. Tra esse spicca Confluenze (1967), composta da elementi quadrati riempiti di acqua e tintura all’anilina, disposti su due linee che variano la percezione visiva a seconda dell’angolo prospettico, mettendo in luce le capacità di Pascali di reinventare i materiali e gli spazi espositivi.
La vaste e sontuose strutture ghiaccianti di Pier Paolo Calzolari, composte da strisce di feltro bianco assemblate irregolarmente come lastre di ghiaccio e piombo. L’installazione riunisce un gruppo di lavori ispirati al suo testo La Casa ideale (1968), e dà l’impressione di levitare nello spazio.
Anche le sale più sobrie o meno sorprendenti, come quelle dedicate ad Anselmo, Kounellis, Prini e Penone, stabiliscono connessioni tra le opere nello spazio. Queste disposizioni creano accumulazioni che invitano il visitatore a nuove interpretazioni e interrogativi.
Il seminterrato, dedicato a Gilberto Zorio, sembra gettare le basi per la rilettura critica proposta da Christov-Bakargiev. Qui domina l’installazione sonora Microfoni (1968), che invita i visitatori a parlare nei microfoni per fa risuonare la propria voce in eco, trasmessa da un altoparlante all’altro. La sala mette in evidenza alcune delle opere più alchemiche e, talvolta, esoteriche, di Zorio, come Luci (1968) e Arco Voltaico (1968), entrambe basate sull’idea di luce, o due versioni di Stella (1972), presentate in altezza. Tra le opere più straordinarie spicca Piombi II (1968), raramente esposta. L’opera combina due grandi fogli di piombo parzialmente ripiegati su se stessi, dove reazioni chimiche, innescate dal contatto con trecce di rame sospese dal soffitto, cristallizzano e colorano i liquidi. Questo processo sembra evocare le premesse alchemiche della pittura, mostrando una materia instabile che evolve nel tempo.
Sarebbe possibile approfondire ulteriormente l’analisi delle numerose corrispondenze tra le sale, sapientemente orchestrate da Christov-Barkagiev. Questi legami fanno di questa mostra una delle poche capaci di offrire una nuova e originale interpretazione dell’Arte Povera.