Dopo circa dieci anni, Betty Bee ricompare a Napoli nella sua prima personale alla Galleria Umberto di Marino. La mostra è curata da João Laia e ne ripercorre in piccola parte la produzione artistica con una rassegna di opere realizzate a partire dagli anni Novanta messe in dialogo, e anche in contrasto, con due serie di nuove produzioni, tutte Untitled.
I fiori, elementi ricorrenti del lavoro dell’artista, sono al centro della scena. Sono luminosi, leggeri e profondissimi. Si ergono con fierezza sullo sfondo di un cosmo luccicante, costellato di glitter, che si ripete in tre grandi tele – in mostra se ne trovano solo due – e che cambia, ogni volta, quasi impercettibilmente. I loro lineamenti, stilizzati, si evolvono in un gioco di luci e ombre. In un’altra serie, fiori di loto galleggiano su una distesa verdastra. In un’altra ancora, bouquet di fiori vivaci ricoprono piccole tele a forma di cuore, dai toni delicati. Ma questi fiori non sono liberi: dipendono gli uni dagli altri perché sono tenuti insieme da un filo spinato dorato che, tessendosi sulla parete, connette i singoli cuori e cerca di costruire nuove relazioni. Allo stesso tempo, i fiori sono protetti dal mondo esterno grazie a questa metallica, la cui robustezza permette alla loro fragilità e alla leggerezza di restare tali, resistendo. Si tratta di un’ambivalenza che attraversa in modo imprescindibile il linguaggio espressivo di Betty Bee, mantenendo permanente la tensione tra due o più estremi. «Flowers never die, they are reborn» citando il titolo del testo che accompagna la mostra.
Betty Bee è un’artista frenetica, tumultuosa. È dotata di un’immensa capacità espressiva capace di manifestarsi senza sosta attraverso l’arte, come un richiamo che sgorga abbondante dal suo inconscio per diventare performance, e poi una fotografia, un dipinto, un’istallazione o un video. È come se stesse scrivendo costantemente un diario dei segreti, in cui le vicende vissute di giorno in giorno si mescolano e si trasformano, sdrammatizzandosi, in esperienze sempre più stupefacenti. È questo il caso di Kalimera(1995), esposto nella prima sala, dove una delle iconiche sirene – altro elemento ripetuto costantemente nella sua produzione – rivela una vera e propria autobiografia di ricordi sviluppatasi dai pupazzetti in plastilina fatti durante l’infanzia, fino all’aggiunta di una coda a pinna, simbolo di affermazione e libertà. Tutti i lavori di Betty Bee sono, infatti, intrinsecamente autoreferenziali perché servono come espediente per ribadire i suoi stati emotivi più profondi, attraverso non solo la figurazione del suo vissuto, ma soprattutto della percezione che ha della realtà stessa. L’uso introspettivo dell’autorappresentazione segna le sue performance degli anni Novanta, in cui Betty Bee può diventare qualsiasi personaggio o utilizzare qualsiasi personalità: può travestirsi, mutare forma, o perfino prendere fuoco. Se nella light box Mice Puppet (1995) si fa bambola in tinte di rosa circondata da topi di retine metalliche, nella stampa fotografica Untitled (1999-2005), l’artista ritrova una sensualità più spiccata e definita.
Accanto agli occhi malinconici e tristi de La Mucca Pazza (1996), la video-perfomance Gilda (1995) è uno dei suoi lavori più noti. Prende il nome dalla mitica Gilda, protagonista dell’omonimo film del 1945, con Rita Hayworth che incarna la “donna-oggetto” oggetto dello sguardo maschile. Qui, invece, è trasformata in una silhouette danzante e giocosa che, incoronata da un’anfora, diventa una fonte inesauribile per il flusso della vita. Non sfuggono alla narrazione di Betty Bee le etichette sociali, i codici comportamentali, le categorie ideologiche di famiglia o di sessualità, che nel suo lavoro vengono profondamente scosse, ribaltate e poi del tutto liquidate, pur restando profondamente irrisolte. La mostra espone anche una delle sue prime opere in assoluto: It’s a territorial game (1991). È una stampa fotografica che ritrae un seno nudo trasformato in un vulcano grazie al tratto lasciato da una matita per gli occhi. L’opera racconta di un’autentica connessione dell’artista con la sua città. Di una napoletanità vissuta fino all’estremo, capace di restare, senza sforzi, ben distante da ogni tendenza e cliché legato alla cultura partenopea, affermandosi in maniera completamente libera e al di fuori dei canoni.