Uno dei motivi principali che porta il pubblico locale e internazionale a visitare le mostre da zaza’ Napoli è la sua locazione. Si tratta di un bilocale, convertito a spazio espositivo, situato in una palazzina che affaccia su una spiaggia a metà tra il Bagno Sirena e la Spiaggia delle Monache – corrispettivamente uno stabilimento balneare privato e una delle ultime spiagge libere del litorale – al cospetto di una delle vedute più celebri della città: quella del maestoso Palazzo Donn’Anna sul mare.
Matilde Serao descrisse questo luogo nel libro Leggende napoletane (1881) dipingendo il «palazzo che non cade e non cadrà mai» come animato dai fantasmi del passato, quelli dei giovani amanti della Regina Giovanna, con i quali trascorse appassionate notti d’amore e che poi ammazzò facendoli precipitare dal palazzo.
È in questo contesto, tra gli echi dei fantasmi, in una spiaggia contesa tra il pubblico e il privato – monache e sirene – ai piedi di una rovina seicentesca saccheggiata durante la rivolta di Masaniello e testimone della stessa, che “Di Dissidenti, Esautorati e Bohémien”, mostra personale di Effe Minelli, trova la sua ragione nel prendere forma.
La prima è quella elicoidale di Ferma Tempo (2025), scultura in gesso installata nel cuore del palazzo – una chiesa sotterranea cinquecentesca situata nel basement e aperta per l’occasione – che come una stalattite, pendente dall’alto di una grotta, ci ricorda la stratificazione del tempo e ci riporta indietro esattamente al 1799, ritrovando le motivazioni che hanno inspirato la rivoluzione napoletana di quell’epoca.
«Finalmente una mostra sull’amore!» Perché è nell’amore per gli ideali di libertà, anche erotica e sentimentale, che Effe Minelli individua le ragioni della rivoluzione. All’artista piace immaginare le rivoluzionarie non solo come intellettuali illuminate, ma soprattutto come giovani bohèmien innamorate che si aggrovigliano nel letto prima di una giornata di sollevazioni popolari.
“Di Dissidenti, Esautorati e Bohémien” ci riporta al senso di paura e frustrazione che, come allora accompagnava le donne, oggi accompagna la comunità queer e dei femminielli delle quali Effe Minelli fa parte. In una complessa mise-en-scène, le due martiri, Luisa Sanfelice ed Eleonora Fonseca Pimentel, star della rivoluzione del 1799 diventate ormai stalattiti sedimentate nel tempo, esautorate, come i manichini che le rappresentano, tornano a dissentire su tutto quello che non va, risorgendo dalle tombe della cripta del monastero innalzando cuori e bandiere.
«Il manichino non è una finzione, è una realtà, anzi una realtà triste e mostruosa. Noi spariremo, ma il manichino resta»1 così spiegava Giorgio de Chirico nel 1942; ma per Effe Minelli, i manichini non sono l’amara consolazione di quello che resta, il “niente”; non sono neanche metafora dei problemi dell’umanità o protagonisti di un’allucinazione collettiva, ma letteralmente bambole da vestire con le quali giocare mentre si chiede: chi combatterà questa volta il mostro a tre teste?