Il tempo di un tuffo al cuore, della lettura di alcune parole su un vecchio taccuino che abissano il senso di una vita; di un fugace incontro o di un accidente che può deviare il corso di un’esistenza. Radicale è la mostra di Andrea Martinucci alla Fondazione Baruchello. Sembra voler tutto azzerare e, allo stesso tempo, ogni cosa spiegare, con un corpus di opere unitario e oscillante tra opposti: concettuale (nell’uso sapiente del linguaggio numerico) ed esplicativo (a ben osservare è narrato il processo creativo stesso di Martinucci); analogico e digitale; figurativo e astratto.
I 5 secondi – titolo del lavoro principale in mostra come dell’intero progetto espositivo a cura di Serena Schioppa e, non da ultimo, del libro a cura di Lisa Andreani (Arbor Editions) – sono quelli di un’azione semplice, resa immensa: l’artista a passeggio in un’apparente, anonima, piazza con in mano una busta colma di 6 chili di arance il cui peso ne determina l’imprevisto, ossia la sua rottura, la conseguente caduta dei frutti e la loro progressiva trasformazione in un’immaginifica costellazione siderale.
L’azione, della durata di 5 secondi, è divisa per i fotogrammi che ogni secondo contiene (24) divenendo quindi di 120 ‘scatti’, stampati a inchiostro nero su fogli di carta argentata letteralmente srotolati – seppur posti a rialzo su pannelli in PVC – lungo i 35 metri di pavimentazione della fondazione romana. La lettura, da sinistra a destra, dall’alto al basso, da passo a passo, comincia con un nero profondo per terminare in un’altrettanta oscurità senza però che i due estremi si ricongiungano. Comincia in una stanza, prosegue in un’altra (idealmente attraversandone il muro), si inceppa per ripartire e finire in un altro ambiente. Quei cinque secondi di azione che osserviamo dall’alto, camminando, ci fanno essere testimoni attivi di un accadimento, rallentandone il tempo. Nell’attraversamento degli spazi si viene nel frattempo accecati da un giallo intenso, come quello delle arance che rompono la busta e determinano l’accidente. Si tratta del colore prevalente di tre tele – Di assurde evoluzioni, Di vuoti e poi di luci, Di questo parla il cielo (2024) – che formano un trittico perfettamente incastonato nella parete di fondo di un ambiente laterale della fondazione, solitamente dedicato a videoproiezioni. Qui, nella sosta, la pittura ad acrilico di Martinucci si apre a diverse interpretazioni. In alto a destra, nell’ultima tela, parti inferiori di una coppia di gambe in cammino sembrano guidare noi, come l’autore, verso un cielo ignoto.
Se le tele sono al posto di dove si immaginerebbe una proiezione video, la parte digitale, ossia i fotogrammi, divengono analogici nei loro complessi richiami non solo alle qualità cinetiche delle immagini consecutive di un’azione – quindi ai primi esperimenti fotografici sul movimento, Eadweard Muybridge piuttosto che le cronofotografie di Étienne Jules Marey – ma, soprattutto, alle origini stesse della magia fotografica e di una diversa visione prospettica sul mondo. La prima fotografia della storia in cui è stata immortalata la figura umana è unanimemente ritenuta la veduta del Boulevard du Temple di Parigi, a opera di Louis-Jacques-Mandé Daguerre, probabilmente realizzata dalla finestra del suo studio, di mattina presto, nel 1837 o nel 1838. In un viale in realtà trafficatissimo di pedoni e carrozze, tutto appare deserto, a causa del tempo di esposizione del dagherrotipo, all’epoca di qualche minuto. In quel lasso temporale l’unica possibilità di presa di una figura umana era la sua staticità; qui l’uomo ritratto è in pausa lungo il suo percorso perché si sta facendo lucidare le scarpe. Assistiamo a un’azione all’epoca ordinaria, immortalata per sempre nella sua durata, la cui meraviglia risiede non solo nella casualità di quello sguardo fotografico dalla finestra, ma nella stessa materia fotosensibile che lo trattiene, ossia il dagherrotipo, costituito da una lastra di rame ricoperta d’argento, il famoso specchio dotato di memoria1.
L’argento è in 5 secondi (opera e non mostra) presente nel supporto cartaceo di stampa scelto da Martinucci per evocare il firmamento ma anche per dare abbaglio e meraviglia a un piccolo incidente quotidiano. La caduta libera della visione prospettica verticale, come la definì Hyto Steyerl nel suo saggio pubblicato nel 2011 su e-flux2, si riferisce prevalentemente al sistema di sorveglianza e alla miriade di riprese dall’alto, dai satelliti alle telecamere a circuito chiuso; in Martinucci è anche la continua visione compressa di vite intere sui nostri dispositivi digitali mobili. Il passaggio opposto, estendere orizzontalmente questa visione dall’alto, rende possibile che 5 secondi si espandano in una profondità di campo data dal passo lento che aiuta l’osservazione e porta alla riflessione.