In occasione della mostra personale di Liselore Frowijn “Every Month I Weave” presso Lottozero – centro per il design tessile, l’arte e la cultura – Flash Art Italia propone il testo critico di Alessandra Tempesti che accompagna il percorso espositivo.
“Every Month I Weave” suona come l’incipit di un ritornello, che evoca i gesti ripetitivi della tessitura e la ciclicità intrinseca ai ritmi naturali del corpo. Tessitura intesa non solo come arte praticata dentro le mura domestiche, ma anche metafora di una trasformazione economica violenta, avviata con la rivoluzione industriale: un processo votato alla massimizzazione del profitto, che ha trasformato i corpi in forza lavoro.
Ripercorrendo a ritroso questa storia, e alla luce del pensiero femminista di Silvia Federici1, Liselore Frowijn riscopre la figura di Margherita Datini, moglie di Francesco Datini, celebre mercante pratese del XIV secolo. In particolare, Frowijn si confronta con l’analisi di Federici sulla “espropriazione” del corpo femminile, ridotto a ingranaggio della produzione e della riproduzione sociale, reso invisibile proprio nei suoi ruoli essenziali ma non retribuiti di cura domestica e maternità.
Margherita2, rimasta a lungo ai margini della narrazione storica, diventa il simbolo di tutte le donne che hanno sostenuto — nel silenzio e senza riconoscimento — l’impalcatura materiale e affettiva del potere economico maschile. È lei il soggetto della serie Outfit of the Night, quattro grandi arazzi realizzati su un telaio jacquard digitale, che intersecano documenti d’archivio, iconografie tessili e frammenti della Prato medievale e contemporanea.
In questa narrazione stratificata, densa di indizi sulla vita di Margherita e tessuta ai limiti dell’astrazione, Frowijn incorpora anche segni dei lavoratori delle filiere tessili di oggi — incluse quelle della comunità cinese che costituisce un tassello spesso invisibile dell’economia locale. Immagini raccolte durante la sua residenza a Lottozero si compenetrano con la figura di Margherita, matrice simbolica di una genealogia femminile che attraversa i secoli, unendo storie di lavoro invisibile e resistenza quotidiana.
Ogni arazzo ha trame di un singolo colore — rosso, verde, blu e nero — in riferimento diretto alla codifica RGB, la base della visione digitale, e al contempo ai colori delle lane medievali conservate nell’archivio Datini. La scelta cromatica richiama tanto le origini del commercio tessile pratese quanto le tecnologie di produzione contemporanee, in un dialogo che lega la memoria della città alla sua identità industriale attuale.
“Every Month I Weave” scandisce, con la cadenza quasi sussurrata di una ballata, un discorso essenzialmente politico sulla percezione del corpo femminile nella società capitalista occidentale3. Nella serie Super Sofas – The Fruits of the Loom, il corpo assume al tempo stesso le sembianze di un oggetto d’arredo e carne da macello. Imbottiture, schienali e braccioli si modellano sui volumi dell’anatomia — seni, fianchi, glutei — trasformando le forme stereotipate della femminilità in elementi di comfort domestico, in un cortocircuito tra erotismo, oggetto funzionale e sfruttamento.
“Every Month I Weave” risuona come un canto alla memoria di tutte le donne che hanno sopportato il peso storico della subordinazione patriarcale. Trentadue Braccia è una soft sculpture composta da lunghi cilindri imbottiti intrecciati a formare una sorta di grembo, al cui interno si irradia una luce fredda. Il titolo allude all’ingente quantità di stoffa — fino a trentadue braccia, secondo le leggi suntuarie medievali — necessaria per confezionare gli abiti femminili al tempo di Margherita Datini, spesso indossati come emblemi di status, ma anche come atti silenziosi di affermazione e resistenza.
La scultura diventa simbolo di un gesto di sorellanza: un intreccio di corpi, mani e braccia che rievoca il sostegno discreto di una comunità femminile che circondava Margherita, come si evince dalle lettere conservate in archivio. L’opera incarna il concetto di carriership — mutuato dalla riflessione femminista di Silvia Federici — dove il corpo femminile, storicamente confinato alla sfera del privato, emerge come infrastruttura invisibile ma fondamentale del sistema socio-economico.
Al centro del cesto-utero, una navetta da telaio industriale testimonia la connessione tra lavoro riproduttivo e industria, tra dimensione della cura e logiche produttive. In questo spazio insieme simbolico e critico, Trentadue Braccia rende visibili le portatrici silenziose dell’economia, riconnettendo il privato al collettivo, e restituendo al corpo femminile la sua complessità storica e politica.