Harry Lime, il cinico e diabolico personaggio impersonato da Orson Welles nel film del 1949 Il Terzo Uomo non avrebbe mai immaginato che la sua storica frase si sarebbe trasformata in una profezia. Si è avverata a Venezia il 4 giugno del 2011 durante l’assegnazione dei Leoni d’oro alla 54ma Biennale di Venezia. “In Italia per trent’anni sotto i Borgia” — dice Lime all’amico moralista guardando il mondo dall’alto della ruota del Prater di Vienna — “c’era guerra, terrore, assassini, e spargimento di sangue, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera avevano amore fraterno, avevano cinquecento anni di democrazia e pace, e cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù”. Beh il Leone d’oro per il miglior artista è andato a Christian Marclay, americano cresciuto in Svizzera, con la sua opera The Clock, l’orologio. L’opera di Marclay non è proprio un orologio a cucù ma un video che dura 24 ore costruito con più di 1000 frammenti di film che hanno in comune il dettaglio di avere un orologio, sia questo da polso, da comodino, da campanile non importa. Voi direte “E allora?”. Allora quello che rende questa opera d’arte un capolavoro tanto da meritare l’onorificenza più prestigiosa alla Biennale è il fatto che gli orologi del film segnano sempre l’ora reale di quando lo spettatore sta davanti allo schermo. Per esempio, mentre scrivo, nell’ultima sala delle Corderie all’Arsenale a Venezia c’è una scena dove l’orologio segna le 17,39, stessa ora che io ho sul mio cellulare. Fra un minuto un’altra scena avrà un orologio con le 17,40 e così via. Quindi chi comprerà l’opera di Marclay avrà due cose al costo di una: un’opera d’arte contemporanea e un vero orologio che volendo potrebbe proiettare in cucina in modo da sapere sempre che ore sono. La cosa bizzarra che forse non tutti avranno notato però è che questa Biennale è praticamente una mostra colonizzata dalla Svizzera, paese a detta di Orson Welles pacifico ma, come l’umido, capace di andare dappertutto. Infatti, oltre al vincitore del Leone d’oro, anche la curatrice Bice Curiger è svizzera, così lo sponsor principale, la Swatch. Quindi, il fatto che a vincere sia un orologio è esilarante, scontato, seppur casualmente, e divertente. Come se il curatore negli anni Ottanta fosse stato Oliviero Toscani, lo sponsor Benetton e l’artista vincitore di Treviso con un opera intitolata Il Maglione. Non sarebbe andata così liscia come invece è andata durante una premiazione dove, oltre agli altri Leoni e menzioni, sono stati assegnati i Leoni d’oro alla carriera a Franz West, fragile guru e artista vecchio stile, autore di sculture astratte colorate, che emanano leggerezza e il desiderio di usare l’arte come gioco poetico.
L’altro Leone alla carriera è finito nelle mani della più che ottantenne ragazzaccia dell’arte contemporanea, l’americana Sturtevant, un personaggio riscoperto negli ultimi anni che ha passato tutta la vita a sbeffeggiare e copiare il lavoro dei colleghi maschi, priapici e prepotenti. Una femminaccia femminista che nel ricevere il premio ha ringraziato tutti quelli che l’hanno seguita nella sua carriera con fiducia e pazienza, compreso François Pinault che le ha dedicato, giocando d’anticipo sulla Biennale, due sale a Punta della Dogana, nella nuova installazione della sua collezione. Ma la cerimonia di apertura della Biennale è stata solo uno dei tantissimi, troppi, eccessivi eventi di questa edizione, che ha trasformato Venezia, più che in un centro, nell’epicentro di un terremoto mediatico con celebrità che hanno fatto a gara a organizzare mostre, cene, feste, premi e altre scuse pur di mettere la bandierina su qualche spazio o palazzo in Laguna. Dalla magica colonna di fumo, malfunzionante, di Anish Kapoor nella chiesa di San Giorgio, che però aveva bisogno di un orribile condotto metallico che sbucava sul lato dell’edificio palladiano svelando il trucco del prestigiatore, come se dal fondo del cilindro uscissero le zampette del coniglio. Alla mostra ineccepibile di una parte della collezione della Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina.
Dalla mostra dei giovani russi “Modernikon” della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo nell’appena restaurato palazzo dei Tre Oci alla Giudecca. Alle decine di padiglioni nazionali che, non trovando più spazio oramai da moltissimi anni ai Giardini, si sono estesi su tutto il tessuto urbano trasformando la visita alla Biennale in una caccia al tesoro. Oppure alla mostra di Marisa Merz alla Fondazione Querini Stampalia, vicino a Santa Maria Formosa, dove c’era anche la delicatissima installazione dell’artista inglese Ian Kiaer che commentava il restauro dell’edificio di Carlo Scarpa, nume tutelare dell’architettura moderna veneziana. La critica d’arte americana Roberta Smith nel suo articolo per il New York Times ha definito tutto questo brulicare, accatastarsi, accumularsi, aggrovigliarsi di mostre ed eventi come una bestia enorme e indomabile sulla quale lo spettatore sembra non poter più avere nessun controllo. Di questa bestia la Smith vede il punto più imbarazzante e basso e addirittura scandaloso: sempre l’oramai stremato Padiglione Italia.
Ma questo solo per dire che anche il mondo soffre a vederci ridotti così. I tantissimi visitatori, la maggior parte addetti ai lavori, arrivati a Venezia per i quattro giorni della preview, hanno iniziato a domandarsi se quello che fino a qualche anno fa era una ricchezza eccezionale per varietà e dinamicità non si stia trasformando in un enorme calderone ingestibile, da un punto di vista critico e temporale, dove tutto sembra assomigliare a tutto il resto indebolendo anche l’evento centrale, ovvero la Biennale stessa. Fra le calli si sono sentite spesso voci esauste che minacciavano una possibile defezione futura. Sicuramente una riflessione approfondita andrà fatta. Anche perché se durante i giorni di apertura Venezia e la Biennale s’intasano, nel corso della sua durata, dei tredici milioni di turisti che transitano nella città una percentuale molto bassa va a visitare la mostra e tutte le sue tante appendici.
Nel 1895, quando la Biennale aprì i suoi battenti, partorita da un idea di Riccardo Selvatico, sindaco della città, doveva essere uno strumento per ridare vitalità a un contesto urbano morente e decadente. Selvatico aveva capito che il passato si poteva tenere in vita solo somministrandogli grosse dosi di contemporaneità. Un’idea che oggi sembra dimenticata ma che ancora ha una sua forza rivoluzionaria. Cento e passa anni dopo, Venezia è una città ancora morente da un punto di vista d’infrastrutture e vita quotidiana, ma alla quale ogni due anni viene data questa dose da cavallo di arte contemporanea che la fa tornare vivace se non del tutto vitale. Forse è arrivato il momento di ripensare la cura. Anziché un elettroshock biennale potrebbe essere più efficace una somministrazione, se non giornaliera, mensile, di vitamina contemporanea. La 54ma Biennale ha dimostrato ancora una volta la sua unicità, ma al tempo stesso ha anche mostrato segni di saturazione mediatica e di eventi. Prima che la disaffezione s’infiltri nelle giunture dell’entusiasmo — oramai oltre i limiti di guardia — è bene provare a fare un passo indietro, immaginando come tornare a fare un balzo in avanti.