Essere oltre l’essere (umano) è volere di molti terrestri. Chi ambisce a un potenziamento cognitivo, chi a una estensione soprannaturale del corpo, essere oltre sé stessi è una condizione ideale e di ricerca costante, per sperare nella immortalità, per evitare malattie, per essere più forti di altri. La ricerca di Agnes Questionmark ha ambizioni diverse: trasferire il senso di scomodità e sacrificio di un umano che passa da uno stato all’altro (da umano a transumano) e di investigare sulla ingegneria genetica attraverso la sua pratica. In forma straordinariamente potente, con risultati spesso sconcertanti.
Gea Politi: Inizierei parlando della performance Attempt II (2023), che hai presentato da 99 Canal a New York. Hai coinvolto molte persone, sembra un laboratorio di transumanesimo.
Agnes Questionmark: Sì, quello è l’effetto Agnes [ndr, ride], c’erano più di duecento persone ad assistere alle due ore di performance. Ero preoccupatissima che i performer soffocassero o non riuscissero a respirare bene, ma tutti erano rilassati e felici. Poi vedere le persone entrare e spaventarsi è stata la cosa più bella per me. L’installazione ha funzionato perché le persone avevano paura, ci credevano. Anche se tutti gli elementi non erano perfetti – ad esempio il costume non era perfettamente seamless, non ho un budget da Hollywood. Però tutti gli elementi insieme hanno funzionato, le persone pensavano veramente di stare in un laboratorio o davanti a una scena del crimine di queste creature aliene.
GP: Qual è la genesi della performance?
AQ: Tutto è partito da una ricerca scientifica che ho iniziato lo scorso anno sul genoma umano e sull’ingegneria genetica. Sulla possibilità di trasformare la specie umana. Questo deriva chiaramente dal mio desiderio e istinto di trasformare il corpo, sono trans e ho accolto la trasformazione nella mia vita quotidiana. Mi trasformo ogni giorno, devo introdurre medicinali nel mio corpo in costante cambiamento. Vedere una metafora della mia trasformazione in campo scientifico è stato davvero stimolante e da lì nasce il pretesto per portare avanti il discorso nella mia pratica. Genoma umano e ingegneria genetica sono stati la soluzione alla mia incongruenza di specie, più che di genere. Ho iniziato a studiare nello specifico il genoma umano, in particolare la codificazione del DNA, e ho trovato questa cellula umana che è stata scoperta, studiata e codificata interamente da dalla A alla Z. Quindi per la prima volta, nel 2018, l’essere umano è riuscito a codificare il DNA attraverso una macchina, perché il codice genetico umano è così lungo che nessuno ci riesce nel corso di una vita. Prima di allora, si conosceva solo il 70% del DNA e questo mi ha portato a pensare che viviamo nella science fiction: noi umani siamo ancora un mistero per noi stessi, così come l’oceano. Quando ero immersa nello studio dell’oceano non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile che ci fossero migliaia di specie in luoghi remoti di esso che non conosciamo e che sono considerati alla stregua di pianeti alieni. Ora sto andando più a fondo in questa mia ricerca perché non solo l’oceano è sconosciuto, anche il nostro DNA lo è. La base del nostro corpo, della nostra evoluzione, delle nostre potenzialità sono sconosciute. Grazie alla macchina – e qui penso al Manifesto cyborg di Donna Haraway – possiamo conoscerci e non possiamo scinderci da essa, dall’artefatto. Siamo a nostra volta esseri artificiali. Questa cosa per me è stata una catarsi e insieme l’occasione di continuare a fare questi esperimenti con Attempt II, perché siamo alieni di noi stessi e esseri in potenzialità. A New York ho ricreato il mio laboratorio, il mio studio.
GP: Il laboratorio di una scienziata transumana.
AQ: Esatto, post specie, postumana, transumana. Non so bene cosa, diciamo che ho sentito l’autorità di poter fare questi esperimenti non solo perché ho questa immaginazione onnipotente ma anche perché c’è una base scientifica in tutte queste teorie.
GP: Parlami più nello specifico di questa cellula che hanno scoperto
AQ: La cellula si chiama CHM13hTERT – che poi è anche il titolo del progetto a cui sto lavorando che presenterò da spazioSERRA a Milano, a cura di The Orange Garden, a maggio –, è stata la prima scoperta che ha avviato la creazione di esperimenti nel mio laboratorio, quando ho realizzato che conosciamo così poco del DNA. Dal mio punto di vista non siamo umani, l’essere umano non esiste perché di fatto non lo conosciamo. Non è definibile, quindi perché dargli un nome? È qualcosa che si può cambiare.
GP: Oltra alla cellula CHM13hTERT ci sono altre scoperte recenti che ti hanno colpito?
AQ: La scoperta scientifica più interessante che ho fatto recentemente è stata quella di un gruppo di ricercatori cinesi che stanno mettendo a punto un utero artificiale.
GP: Oggi la scienza è in grado di ricreare le condizioni per fecondare un utero, anche se presuppone sempre un corpo. Chissà magari l’uomo arriverà a procreare senza inseminazione…
AQ: Sì, la fecondazione in vitro esiste già da tanto tempo. Con questa nuova ricerca si procede sempre con l’inseminazione artificiale, ma la gestazione avviene poi in un utero artificiale. Penso che questa scoperta, oltre ad analizzare meglio lo sviluppo della vita umana a partire dalle sue primissime fasi, possa nel tempo evitare a un corpo una gravidanza. Seguendo un pensiero transumano la gravidanza è un peso. Tornando all’inseminazione, sicuramente saremo in grado di procreare anche senza in futuro.
GP: Da un certo punto di vista è un depotenziamento.
AQ: Esatto. Il postumano celebra il ritorno al corpo e alla natura, mentre il transumano va oltre il corpo umano. Una parte di noi sta andando verso la separazione di mente e corpo; il corpo viene quasi abolito, i rapporti fisici stanno diminuendo progressivamente e con la placenta artificiale non c’è più interazione. In una provetta viene fatta l’inseminazione e poi viene messa in una busta di plastica. C’è un video fantastico di trenta secondi che mostra come uno spermatozoo entra in un ovulo ed è incredibile perché in pochi secondi viene distrutta l’umanità per come la conosciamo.
GP: Ci sono casi in cui l’inseminazione si fa su un ovulo che non appartiene alla donna, con un seme che non è chiaramente suo. È un processo quasi alieno. In questi casi la gestazione viene portata avanti dalla donna, come se lei fosse la madre surrogata di sé stessa.
AQ: Quindi diventa un ospite. È un concetto bellissimo. In natura questo succede frequentemente. È come l’incubazione di un uovo. Anche in questi casi la donna è l’incubatrice.
GP: Parlando del pensiero transumano c’è questa fase in cui avviene prima la gravidanza e poi la nascita, che è una parte estremamente complessa e difficile se si è unici responsabili della nuova vita che verrà. Diventi genitore di un altro essere, condizione complessa perché fuori dal tuo controllo.
AQ: Appena ho avviato il processo di transizione ho iniziato a sentire un istinto materno. È la cosa più forte che mi sia mai successa. Si avverte l’istinto di procreare, è una cosa biologica. È anche per questo che affronto questi temi nel mio lavoro, perché sento anche la frustrazione di non poter generare biologicamente una mia creatura. Però, da artista, sento il bisogno di creare queste creature: questi alieni sono miei. Tornando ad Attempt II, il mio ruolo era fondamentale perché ero la scienziata che li controllava.
GP: Sì, sembra tu sia una scienziata-fantasma, anche senza un camice addosso. A proposito di questi esseri che crei, di qualunque genere – placenta, plancton, alghe, non ha importanza – quanto vicino alla realtà vuoi portare questi esseri? Con le giuste possibilità quanto intendi spingerti verso un’altra realtà?
AQ: Questa è la domanda che all’università i professori più attenti mi pongono. Sono loro, qui al Pratt Institute, che mi spingono di più a riflettere su questo: fino a che punto crei una situazione reale o fantascientifica, o performativa-scientifica. Dov’è la linea tra realtà e finzione? Da un lato mi domando quanto ci sia davvero bisogno di creare queste creature per renderle reali. Da un lato no: per esempio nella performance Transgenesis (2021) io stavo sopra a un polpo gigante con un costume di lattice e polistirolo, ma il pubblico in quei 10-15 minuti credeva che fossi io il polpo. Viviamo in un momento di post-truth, in cui non sappiamo cosa è reale e cosa no, viviamo di immagini create già per noi, vecchie e nuove, o generate dall’intelligenza artificiale. La realtà è un po’ svanita, ma è essa stessa qualcosa di artificiale, di teatrale. Sono amante della sci-fi e leggo tantissima letteratura science-fiction, lo storytelling è fondamentale per creare nuove realtà plausibili. E noi artisti abbiamo bisogno di continuare a farlo.
Poi, c’è questo mio istinto di voler rendere quello che creo più reale, attraverso gli esperimenti scientifici, per questo mi sono avvicinata a questa ricercatrice di ingegneria genetica, Jo Zayner. Andare nel suo laboratorio ha significato un’ispirazione gigantesca – come quando sono stata a studio da Luigi Ontani per la prima volta. Sono entrata in un mondo a me sconosciuto, per la prima volta ho visto che le mie idee potevano essere messe in atto, esistere. Zayner fa degli esperimenti genetici su delle cellule umane in scala così ridotta di cui non potrà vedere i risultati nel corso di una vita. È questo il nostro problema, la nostra vita a un certo punto finisce. Forse fra tre o quattro generazioni potremo vedere creature aliene e estensioni tentacolari nei nostri corpi. In uno dei suoi esperimenti ha fatto sopravvivere delle cellule prese da un topo, le ha unite artificialmente a una sua vena per poi constatare che questo piccolo cumulo di cellule vive sono sopravvissute per qualche giorno grazie a quel corpo. Queste cellule sono morte, ma lei ha dimostrato che esiste la possibilità che un giorno potremo avere una placenta, un utero vivo attaccato a noi, e potremo collegare una creatura al nostro corpo e vivere in simbiosi, in uno scambio di flussi. Questa è la ricerca controversa e attuale della scienza, la trans-specie. Abbiamo capito che viviamo tutti in simbiosi, siamo collegati con gli altri esseri. Quindi cosa succede se veramente apro il mio corpo ad altro? Qual è la reazione?
GP: Julian Huxley, che ha coniato il termine transumanesimo nel 1957, diceva che l’umano era destinato ad agire per conto del resto del mondo nel realizzarne il più possibile le potenzialità. Per cui una enorme responsabilità che l’umano probabilmente nemmeno voleva. L’uomo non l’aveva chiesto, non è stato avvertito, non aveva una preparazione adeguata a ciò. E come se non bastasse non poteva rifiutare questo incarico. Che lo desideri o meno, che sia cosciente o meno, è lui che determina l’orientamento futuro dell’evoluzione della nostra specie su questo pianeta. Fino ad oggi almeno, era questo il suo destino inevitabile. Pensi che questa condizione sia cambiata? È qualcosa che stai cercando anche tu di dimostrare attraverso il tuo lavoro?
AQ: Intendi questa sorta di responsabilità così forzata? Io sono cresciuta in barca, in mare con mio padre. A otto anni mi ha messo le bombole sulla schiena e sono scesa sott’acqua da sola. Sono stata catapultata nel mondo marino, forzata a compiacere mio padre, e il mare è diventato il mio habitat naturale. Per quello ho sempre avuto questa facilità nell’immedesimarmi in altre creature, soprattutto marine. Adesso non sono più a contatto con il mare da tanto tempo ormai e la mia ricerca è cambiata. Però io sento questa adattabilità, piuttosto che una forzatura. L’essere umano, come tutte le altre creature, ha una capacità di adattarsi alle situazioni. Non ci rendiamo conto neanche della responsabilità che abbiamo sul pianeta e sul controllo del nostro corpo. A livello transumano credo che ci siano persone che sentono veramente il bisogno di andare oltre l’umanità, di creare questo essere umano quasi perfetto, immortale. Tuttavia penso anche che le teorie transumane siano eccessivamente egocentriche.
GP: Certo, sono troppo umanocentriche, chiaramente.
AQ: Umanocentriche e piramidali. Mettono l’essere umano al di sopra di ogni cosa. Questo è l’istinto del patriarcato, l’istinto capitalista, l’istinto eteronormativo. Dominare il corpo, il mondo, le creature è un concetto problematico.
GP: Diciamo che tutti i termini sono già stati coniati, almeno quelli che ci interessano. Per cui bisogna riscriverli.
AQ: Sicuramente sì, soprattutto adesso. Vivendo a New York, vedo il bisogno di dare voce e visibilità a categorie che sono state distrutte e silenziate durante la storia, soprattutto nel XX secolo. Tornando alla science fiction, sto leggendo Octavia E. Butler e trovo sensazionali le sue metafore sul colonialismo – come la dominanza della whiteness o l’afrofuturismo. Butler scrive di queste creature geneticamente perfette che arrivano sul pianeta Terra a dominarla, a utilizzarla, a studiarla, per poter sopravvivere. E questa è una critica alla schiavitù – un’altra storia bellissima racconta di questi bambini nati in mezzo al mare che tornano in America armati per sconfiggere il popolo americano. Leggendo il manifesto del transumanesimo – sviluppato negli anni ’90 e pubblicato nel 1998, adottato oggi dalla piattaforma web Humanity+ –, trovo sia molto presente la dominanza umana. Quello che a me interessa del transumanesimo sono le ricerche scientifiche che porta avanti, anche se non sono sempre in linea con l’apparato teorico.
GP: La scienza probabilmente potrebbe essere in grado di andare oltre anche l’umano…
AQ: Sicuramente, o capire che siamo più fluidi di quello che pensiamo. Se la scienza potesse essere più accessibile, e questo è anche un altro problema, ci sarebbe una consapevolezza maggiore sulle potenzialità del corpo e sull’essere anormale, mostruoso. Il problema è che la scienza non è accessibile, le medicine non lo sono, c’è un’ignoranza che blocca le persone nel portare avanti i propri desideri. Questo è dovuto principalmente alle strutture di potere che esercitano il controllo sulla società e sul corpo delle persone, l’ossessione di controllare l’evoluzione del corpo della donna, dei corpi trans, dei corpi queer.
GP: Hai messo in standby il mondo marino, o continuerai ad affrontarlo?
AQ: Quel mondo fa sempre parte di me. Per me il mare è sempre stato una metafora del grembo materno, dell’utero. La mia ossessione principale è l’utero e la gestazione, andare a intervenire e studiare quel luogo in cui tutto viene determinato, dove il DNA e il fenotipo vengono scritti. E quella è la fase che gli scienziati vogliono targhetizzare per poter trasformare l’embriologia, un tema così delicato in un momento prolifico per la scienza. Adesso non ho più la necessità di immergermi in acqua, perché sono “nata” e ho la consapevolezza del mio corpo e di chi sono. Ora voglio andare a trasformare ciò che viene dopo la nascita. Le performance in acqua erano un momento di gestazione, un momento di ritorno al grembo materno. Inconsapevole di ciò che sarebbe stato di me nel futuro, di andare a trasformare il mio corpo mettendo in discussione la mia umanità, la mia specie. Oggi non sento più questa urgenza.
GP: Pensi sia dovuto alla prima fase di transizione quel bisogno di dover rinascere ogni volta in modo più consapevole?
AQ: Il mio lavoro ha chiamato la mia transizione e quest’ultima ha riformulato a sua volta il mio lavoro. Mentre lavoravo a Transgenesis un giorno mi sono detta “Agnes, te lo stai dicendo da sola che vuoi fare la transizione”.
GP: A quel tempo non eri ancora in transizione?
AQ: No, ho cominciato a prendere gli ormoni il giorno in cui ho iniziato Transgenesis. Quando sono arrivata a Londra per installare li avevo già comprati. Appena prendi la prima pasticca sale l’adrenalina, ti senti già cambiata, in trasformazione, quando in realtà è un processo molto lento. Cambia la percezione di te stessa, degli altri e ti forza a conoscere più a fondo il tuo corpo – banalmente facendo le analisi del sangue ho visto cosa c’è dentro il mio corpo, con gli X-Ray ho capito come si sposta la massa grassa, i muscoli, di come i genitali stessi si trasformano. È un’apertura al corpo.
GP: Il tuo è un messaggio di allarme, non solo nei confronti del corpo ma anche dell’ambiente, l’essere umano può davvero sovvertire un periodo storico. Per avere più rilevanza attraverso il tuo lavoro, pensi si debba arrivare a un vero e proprio sacrificio – che non deve essere necessariamente un sacrificio umano?
AQ: Una persona mi disse: “Devi scegliere tra l’amore e l’arte”. C’è già un sacrificio in atto per me, il mio corpo è diventato il mio campo di battaglia, la mia forza, il mio luogo di ricerca, il mio medium. Quindi non posso più staccarmi dalla mia arte. Non vedo altra possibilità per me, il mio modo di vivere è questo. C’è sicuramente una grande sofferenza nel vivere in questo momento, in questo mondo, in cui desidero creare un’altra realtà perché in questa non mi rispecchio, come tante persone. Utilizzando il mio corpo mi sacrifico e porto un messaggio. Sacrifico me stessa e sono l’unica a soffrire, mentre gli altri possono trarne un vantaggio, o vedere qualcosa in quello che faccio.
GP: Sicuramente possono trovare una lettura per sé stessi.
AQ: Sì. Le reazioni alle mie performance sono diverse: c’è chi non capisce cosa sta guardando (ma è comunque una reazione); poi c’è chi ride, chi piange, chi è disgustato. Ricordo che in una delle reiterazioni di Transgenesis una persona mi è scoppiata a ridere in faccia in un momento delicato della performance, in cui il polpo dedica tutto il suo corpo, e io ero distrutta e non riuscivo a muovermi.