Dopo tanti rinvii ci ritroviamo al mio bar-studio, bevendo un Chinotto di Savona e mangiando un pezzo di pizza Napoli al trancio.
Marcello Maloberti: Per prima cosa mi piacerebbe che tu mi parlassi delle tue esperienze nei centri benessere, nei fitness-club, nelle palestre, nei villaggi turistici. Filtrando e forse anche senza volerlo, l’aver sentito, annusato i sapori di quei luoghi, ha influenzato le tue opere. I tuoi lavori possono essere promesse di evasione, come il senso del bello è per Stendhal una promessa di felicità?
Alessandro Agudio: Ho iniziato a lavorare a 19 anni nei club fitness, all’inizio a Monza e Brianza, ho preso più brevetti. Si fa ginnastica, ci si diverte, si fa amicizia e ci si innamora. C’è il bar, il solarium, sale attrezzate con grandi specchi e buoni impianti audio, la filodiffusione attiva per tutto l’orario di apertura; tante piante e qualche stampa di pittura astratta arredano con una certa idea di buon gusto. Si tratta di ambienti piacevoli, elegantemente standardizzati. Sicuramente è un aspetto su cui mi sono concentrato, i miei lavori assumono la posa dell’opera d’arte ma bilanciata in una forma più rigida che ne fa silenziosi ornamenti; in questo li vedo un po’ buffi. Non raggiungono mai una vera tridimensionalità, sono piuttosto l’immagine di qualcosa che tendono a voler essere, non promettono nulla.
MM: Non ti vedo un cultore del design. Mi interessa da dove parti.
AA: Non lo sono e non mi interessano le dinamiche tra arte e design. Parto da una visione un po’ pessimistica dell’arte, ciò che penso e che faccio è comunque il frutto di questo mondo, non sfugge, non evade ma tenta disperatamente di essere all’altezza degli eventi. Potrei riassumerti il mio lavoro con questa frase: come un astronave di legno lungo una spiaggia brasiliana… Così un opera d’arte all’interno di una galleria, è una visione statica che non ti permette di sognare troppo. Ho comunque una passione per gli interni e mi affido per lo più ai ricordi e alla percezione che avevo da bambino, quando giravo per casa tra una miriade di oggetti e piante di ogni tipo che mio padre tutt’ora colleziona e dispone per tutta la casa.
MM: Come una personale Wunderkammer… Come si chiama tuo padre?
AA: Giordano. Faceva il macellaio, ora è in pensione e ha la passione per la bici da corsa.
MM: Sono curioso di vedere la casa di Giordano, amo i “trova-robe”. Comunque, gli oggetti che ho visto hanno spesso incorporati degli speaker e mi pare che i titoli dei tuoi lavori come Bravissimi, Lulù/Lula, Kalenji abbiano una certa musicalità. Ci vuoi affascinare con il suono? Inoltre a me sembra che il tuo lavoro sia genuino, parte da ciò che senti, dal club come metafora dell’uomo contemporaneo.
AA: Mi fa piacere che trovi il lavoro genuino, ho sempre paura che nella formalizzazione (spesso affidata a degli artigiani) e nell’uso di materiali freddi si perda la loro natura fragile. Certo, inserire della musica credo sia un valore aggiunto, mi affascina la dinamica d’interazione con l’opera, la musica ti fa ballare, rilassa. Spesso associo i titoli alla forma e al sapore dell’oggetto, è un modo per suggerire una personalità, poiché sono forme apparentemente sofisticate, è più un lavoro di superficie. Ad esempio, Kalenji ha una sonorità portoghese e l’opera restituiva, attraverso i colori (giallo e verde), un sapore brasiliano, ma arriva dalla Decathlon, una marca sportiva.
MM: Alessandro, parlami della mostra che hai fatto da Gasconade. I tuoi oggetti, le tue istallazioni evocano dei luoghi. Sembrano dei condomini metafisici, mi vengono in mente le vie di villette vuote di Rimini d’inverno, degli oggetti-luogo. Sono corpi in posa.
AA: La mostra da Gasconade era strutturata come un’ambiente, come un’ipotetica casa di un dentista. C’erano delle piante, uno stereo che ricordava l’ossatura di due sedili e c’era una forma, una sorta di svuota-tasche, il tutto per creare una buona atmosfera. La mia idea era di creare una mostra tanto piacevole quanto sexy. Ma gli oggetti tentano disperatamente di essere all’altezza dell’evento di una mostra. Inoltre mi interessa molto la superficie, tanto che le fioriere erano laminate, rivestite, ma non interamente: il retro era nudo, rimasto legno vivo, come fossero delle scenografie, dei set.
MM: Sono curioso della performance con Lupo Borgonovo dal titolo The big Simon: mi chiedevo, chi è “big Simon”?
AA: The big Simon è un mio collega che, in posa per una foto, si atteggiava in maniera sexy davanti alla statua di Nettuno che abbiamo in palestra. Io e Lupo abbiamo pensato che “il grande Simo” sarebbe diventato un trans che ci avrebbe invitato a casa per una cena. Nello stesso periodo stavo leggendo il libro di Philip Roth, L’animale morente. Alla fine c’è una descrizione del capodanno cubano. Alla televisione ci sono un gruppo di trans che ballano con delle abat-jour sulla testa… L’ho trovato commovente. Per la performance ho realizzato dei bilancieri da palestra, con alcuni dischi rivestiti di specchi, mentre nei tubi in plastica che facevano da struttura c’erano: acqua, curcuma, pepe nero… Alcune forme di pane erano legate a catenelle-gioiello color rosso rubino (sembravano quasi dei muscoli), legate a loro volta a un grande cinturone bianco allungato su una coscia, un po’ da cowboy. Quindi sono entrato sul palco sganciando le catenelle, mettendole al muro per poi legarci le mie forme. Lupo intanto versava gelatina nei becher e posizionava queste forme simili a delle grandi portate per la cena o gusci di conchiglie dai colori acidi…
MM: Come un continuo spostamento delle forme, per cercare un’impossibile posizione dello stare. Hai questa idea di collage ma anche di una moltitudine di cose, una sorta di alfabeto infinito di oggetti che guardi, che annoti, che ti segni. I tuoi oggetti starebbero bene ne “Il condominio” di James Ballard. Mi sono creato un’immagine di te in sovrappensiero, ti cade l’occhio sui bulloni di quello stereo del bar di provincia, sulla plastica, dai un respiro maggiore a quella visione.
AA: Osservando questi oggetti come la vite messa in un certo modo, o i colori del muro, immagino la persona che ha scelto il colore o quel tipo di vite. Ma rimane in secondo piano, come uno spettatore. Nella mia mente il soggetto non è l’oggetto che ho costruito, ma è la persona a cui potrebbe piacere quest’oggetto.
MM: Vorrei sapere i riferimenti che hanno segnato il tuo immaginario, quindi una costellazione. Parlo di musica, di arte, di cinema, le prime cose che si vedono, che si leggono, le prime impressioni ti segnano un po’ il carattere.
AA: I film di Terry Gilliam. Brazil e Parnassus – The Imaginarium of Doctor Parnassus. Sono i meccanismi futuribili che mi appassionano, non sono mai troppo lontani dal presente e spesso risultano forme strambe e contemporaneamente plausibili; sono il frutto della fantasia a cui voglio lasciarmi andare quando lavoro.
MM: Quando hai tenuto la conferenza alla NABA, al mio corso di Arti Visive, ti ho sentito parlare spesso di aggettivi come “molto figo molto bello molto giusto molto club”: che cos’è per te figo oggi, nell’arte contemporanea?
AA: Non è facile, non so cos’è figo. Anzi, figo ero io quando andavo all’istituto d’arte, davvero, sono anche stato nominato “Mr. Istituto” un anno… Ma ero un figo molto timido.
MM: La domanda che ti ho fatto prima non era mica facile… Comunque, Il tuo mondo, le tue opere sono delle promesse di evasione?
AA: Sono promesse non mantenute.
MM: L’arte non è più un sogno, alla fine.
AA: L’arte è come una visione molto nitida della realtà.