Daniela Ambrosio: Limiti, variazioni, ripetizioni: sembrano essere queste le “regole” a partire dalle quali sviluppi il tuo lavoro. Qual è il punto d’arrivo?
Alessandro Di Pietro: Direi nessuno. Credo che stabilire il punto d’inizio di un lavoro sia più difficile — e più utile — che definirne il punto d’arrivo. Preferisco “irrigidire” molto l’esordio del lavoro in una griglia fatta di limiti (il perimetro di uno spazio, la morsa di una molla) e di ripetizioni (il ritaglio, la stampa). Tale griglia viene inevitabilmente forzata durante la realizzazione dell’opera senza che io possa farci nulla. È infatti lo scarto involontario che si produce nello spazio d’azione e nel tempo di produzione di questo mio “predisporre il lavoro” che fa il lavoro stesso. Per me, l’immagine di un punto d’arrivo è quella di una successione di segmenti che, a distanza, si percepiscono come una totalità (curva?). Questo tutto non sopprime però l’individualità parziale di ciascuna unità. È insita in queste logiche l’idea di misurazione empirica e la volontà di costruire un’unità di misura soggettiva. Si parte proprio dalla base…
DA: Nei tuoi lavori il frammento è l’elemento più ricorrente. Ci troviamo di fronte ai resti di qualcosa o si tratta di materia embrionale in fase di formazione?
ADP: Nella mia pratica artistica, il frammento corrisponde sia all’idea di embrione che a quella di scarto. Ma soprattutto corrisponde a un punto di vista in cui la visione periferica viene meno. Il frammento è come un micro-territorio, che sarà poi rielaborato: dal momento in cui lo analizzo e lo traspongo sul piano verticale, il frammento diventa opera. Esso ha quindi la funzione di “isola d’attenzione”, i cui confini continuano a variare. In fondo, non faccio altro che riorganizzare questi territori dandomi delle regole necessarie. L’obiettivo è allontanarmi il più possibile dall’estetica di una nostalgica archeologia del contemporaneo: limitare la mia possibilità di agire mi permette infatti di bilanciare ciò che convenzionalmente è considerato “scarto” e ciò che non lo è. Non c’è una morale in questa operazione; si tratta piuttosto di un’inversione di coordinate. Ovvero: riflettendosi in quei “rifiuti” d’esistenza trasferiti su un muro verticale, un uomo può retrocedere a quel piano orizzontale da cui essi originano, dimenticandosi per un momento — pur rimanendo in piedi — di essere homo erectus. E ancora: se al momento del campionamento il frammento è isola, nel momento della sua applicazione verticale esso diventa orizzonte. Quest’ultima componente sta declinando in maniera importante il mio lavoro. In 258 fragments of my side as a gradient, as an horizon (2012) si arriva progressivamente a questa forma: un’installazione di 258 stampe laser i cui campionamenti sono stati eseguiti, tramite uno scanner mobile, tra il mio studio, la mia casa e altri luoghi che definiscono la mia personale posizione nella città di Milano. Ho usato lo scanner come un dispositivo fotografico per registrare ad alta definizione frammenti di superfici. Tutte queste porzioni epidermiche sono state classificate in base alla loro grandezza in previsione della ricostruzione di un orizzonte su una parete di 5,40 m. Il processo di costruzione di quest’orizzonte ha dunque seguito un protocollo, mentre l’immagine complessiva e specifica dell’opera è emersa solo al momento della sua installazione nel luogo a lei destinata.
DA: L’arte nasce dall’errore o genera semplicemente errori?
ADP: Penso che l’arte sia un errore, come lo è la storia. O un azzardo, come la scoperta del fuoco.