“Fiamma pilota le ombre seguono”, la mostra che Alessandro Pessoli ha recentemente inaugurato alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, presenta un’unica opportunità per valutare la posizione corrente di un artista che ha attraversato due decenni abbondanti restando straordinariamente leale all’immaginario intorno a cui ruota la sua pittura, senza per questo rinunciare a sottoporsi a occasionali revisioni linguistiche e teoriche. Composto da tre dipinti, “Fiamma pilota le ombre seguono” nasconde dietro un titolo come di consueto carico di allusioni oniriche e surreali una chiave di lettura importante, che aiuta a comprendere il percorso svolto dall’artista al momento della sua concezione e realizzazione, e dove rimandi e deviazioni si scontrano con affermazioni perentorie quanto provvisorie.
Il tema principale è quello della Crocifissione. Si tratta di un territorio insidioso, teatro di infinite interpretazioni e portatore di un bagaglio iconografico che, accostato all’altrettanto tradizionale pratica della pittura, finisce con l’avere tutti gli ingredienti per generare uno scenario costantemente in bilico tra il desiderio di reinventarsi e la necessità di non stravolgere completamente le fondamenta su cui è edificato il suo patrimonio. Ma è proprio in questo genere di sfida, che in termini musicali potrebbe essere tradotta nella riproposizione contemporanea di uno standard, che il lavoro di Pessoli trae la sua forza. L’iconografia religiosa funge da punto di partenza, e anche se è avvicinata con il rispetto che le si deve debitamente osservare, viene abbracciata con visibile resistenza. Riconosciuta l’iniziale autorità del soggetto, Pessoli cerca di trovarlo dalla distanza, intraprendendo così un viaggio su una strada lastricata da incidenti di percorso, simbolismi inaspettati e piacevoli incongruenze. Quest’attitudine onnivora e ribelle è diffusa in maniera epidermica, e ha visto una delle sue prime manifestazioni nella scelta di Pessoli di dedicarsi alla pittura alla fine degli anni Ottanta, in pieno post-Neoespressionismo, quando per un giovane artista una decisione del genere costituiva una grossa incognita se non un vero e proprio azzardo.
Improntata fin dall’inizio sull’immediatezza anche nei momenti più riflessivi, la pittura di Pessoli trova le sue radici nel disegno, attività che ha segnato i primi passi della sua avventura e che continua a svolgere un compito preponderante anche oggi. Il disegno, oltre ad avere la capacità di trasmettere i pensieri più complessi in una forma relativamente semplice, si avvale della possibilità di poter rivelare la progettualità che determina la realizzazione di una forma in tempo reale, illustrando al tempo stesso gli aspetti più intimi che caratterizzano la relazione tra l’autore e la sua creazione. Questa insolita sensazione di rassicurante precarietà si è poi rivelata un tratto costante del lavoro di Pessoli, come si è potuto vedere di recente nella sala di disegni allestita alla 53esima Biennale di Venezia, e ha agito da contrappunto perfetto a un universo popolato di riferimenti che vanno dalla religione all’arte, dalla politica alla storia, dalla cultura alle qualità della realtà periferica da cui proviene (come l’idea felliniana e sempre misteriosamente cupa dello spettacolo di piazza, o gli omaggi all’aviatore Francesco Baracca, testimoniano).
Proprio nel periodo concomitante a Venezia, la figura del Cristo crocifisso ha fatto una delle sue apparizioni più convincenti con Cristo che brucia tra i limoni (2009). La scena più cruenta e riproposta del Nuovo Testamento si presentava del tutto inscalfibile, ma avvolta da un tratto istintivo che la trascinava in un luogo solare e inebriante, strettamente imparentato con il paesaggio californiano dove da qualche anno Pessoli risiede, svuotandola così del dramma che la contraddistingue. L’elemento di tensione persisteva, ma non era più urlato. Usciva invece alla distanza, confuso in un coro di voci discordanti che formavano un insieme sorprendentemente armonico.
Analogamente, il corpo al centro di Fiamma pilota, si estende sulla tela, costellato di citazioni anatomiche che vanno da Guido Reni a Grünewald, quasi a voler sottolineare il suo ruolo di luogo d’incontro e convivenza di diverse epoche e visioni, emanando un’energia e un calore che rispondono con successo alle premesse del titolo che le è stato affidato. Le figure ai lati comunicano invece una condizione differente. Volutamente indefinite, e accomunate da una tonalità blu scura che le mette apertamente in conflitto con l’ambiente in cui si muovono, sono colte in una fase di risveglio da un torpore di matrice sonnambolica, di fatto cristallizzando un attimo di sospensione, suggerendo come quello che sembra essere un epilogo è in effetti la nascita di un qualcosa destinata a non essere vista nella sua completezza.
L’idea di ombra, e quindi di proiezione astratta della realtà, si estende anche agli altri due tasselli del trittico, ed è particolarmente evidente in Le figure ritornano a casa (2011), una composizione che trova la sua musa in un episodio biblico come la fuga in Egitto, ma che si palesa come celebrazione dello stesso stato d’animo descritto appropriatamente da Leopardi nella Sera del dì di festa, quando gli eventi si chiudono con l’avanzare lento ma inarrestabile di un senso di solitudine. Enfatizzato da un color oro, il tramonto agisce da fondale per due figure donchisciottesche che vagano alla ricerca di una destinazione — la vera essenza dell’esodo al di là del Mar Rosso una volta svuotato dalla cortina fumogena di epicità che abitualmente lo accompagna. L’estensione delle braccia come unità di misura dei limiti dettati dal quadro si ripete, ma se in Fiamma pilota il gesto è catturato alla vigilia del suo successo, qui viene invece proposto nell’istante del fallimento, impegnato nell’impossibile rivendicazione di uno spazio che sta per abbandonare.
La bipolarità temporale e cromatica di Fiamma pilota e Le figure ritornano a casa converge in fine in un titolo dai richiami futuristi come Testa farfalla su matrice locomotiva (2011), forse il momento più criptico della serie, ma anche il più ricco di sfumature. La sua dualità è espressa fin da subito dalla netta divisione della tela. Scandita ritmicamente dall’inclusione di tre tamburi, offre una sequenza di panorami dissonanti attraversati da due gruppi di persone la cui chiara suddivisione nel ruolo di audience e performer non riesce nascondere del tutto la mancanza di una narrazione univoca e il conseguente disagio interiore che questa assenza provoca nei protagonisti. I volti all’interno del paesaggio bucolico sono testimoni di uno spettacolo vagamente sinistro, una percezione accentuata dalla transitorietà fisica e spaziale dei suoi fautori e dalla forzata coesistenza di oscurità e luce. Anche in questo caso si registra un tentativo di allargamento delle braccia, ma la trasversalità del contesto interrompe drasticamente l’azione, dando agli arti le parvenze di un apparato meccanico troppo ridotto per questo scopo. Esplorare il lato mistico e grottesco delle cose può spesso rivelarsi un’arma a doppio taglio, soprattutto quando si lavora d’istinto, ed è importante in questo senso soffermarsi sulla predilezione di Pessoli per la dimensione fumosa e contrastante che separa luci e ombre. In quella fase del sonno che si verifica un fenomeno breve quanto intrigante in cui i sogni possono in qualche modo essere controllati, una forma di adesione parziale che, traghettata nell’arte di Pessoli, si materializza in toni accesi, a volte esasperati, ma mai esagerati. Errori e cancellature sono visibili, e questa coabitazione tra processo e risultato contribuisce a mantenere il giusto equilibrio tra freschezza e solennità. La barriera mentale che esiste tra autore e soggetto viene aggredita ma mai interamente abbattuta, arricchendosi a ogni passaggio di nuovi significati e invenzioni. Anche la tecnica, che attinge a piene mani da un repertorio che va dalla classicità dell’olio alla lucentezza dello smalto, fino a un materiale stradale e decisamente poco nobile come la vernice spray, riflette questa ambiguità. Inizio e fine non sono concetti facilmente quantificabili, il contenuto è fisso ma in continuo mutamento, ed è proprio in questa eventualità che prende vita il movente che conferisce all’immagine dipinta il perenne diritto di una seconda possibilità.