Fabiana Bellio: Talvolta nelle tue fotografie paesaggio e individuo sono ritratti separatamente. Si tratta di assenza di contatto tra l’uomo e l’ambiente? Che ruolo ha per te il paesaggio nella ricerca dell’identità individuale?
Alice Grassi: I luoghi sono il punto di partenza dei miei lavori, rappresentano un confronto tra me e lo spazio, sia esso aperto o chiuso, deserto o affollato. Vivo gli spazi attraversandoli come in un viaggio dentro la memoria. L’arte diventa per me lo spunto per iniziare un percorso silenzioso in cui tento di rendere simbolico uno spazio fisico, usando il paesaggio come terreno d’indagine. I luoghi, domestici o naturali, sono il deposito delle idee e descrivono una geografia del ricordo che si nutre dello scambio reciproco tra l’individuo e i segni che la storia ha lasciato.
FB: In Erpice (2004), instauri un dialogo con alcuni luoghi privati, familiari o immaginari. Baci appassionatamente un pupazzo di gomma e poi cuci la tua bocca con un filo nero. Cosa vuoi comunicare?
AG: Erpice nasce da una sorta di dialogo tra tutti gli elementi raffigurati, che appaiono, difatti, come la proiezione di un lungo disquisire sul mondo circostante. Il make-up “psicologico” della bocca cucita nasconde un segreto da sottrarre a un mondo in cui si parla troppo. Il silenzio diventa un regalo prezioso contro la voracità delle parole.
Con la fotografia del bacio, invece, ho provato a descrivere un’affettività malata, inquinata dalla paura di vivere le emozioni. Ho creato una situazione in cui gli oggetti prendono il posto delle persone: il legame, diventando pura finzione, non appare più compromesso dal dolore.
FB: Nel video Babel (2008) sei seduta a tavola ma non mangi e la tua fronte è ricoperta da una grossa lingua. Potresti spiegarci il senso di questo lavoro?
AG: Babel nasce da una riflessione sulla comunicazione invasiva che impedisce le relazioni tra le persone. Troppi linguaggi producono un’assenza, un vuoto, rovesciando la meccanica, l’apparato “anatomico” della comunicazione stessa. Ho iniziato questo lavoro pensando a una situazione quotidiana e claustrofobica: un luogo buio, una tavola apparecchiata per due, con piatti vuoti e bianchi, quadrati come fogli di carta. Dei due commensali ne vediamo uno solo. È bendato dalla protesi di una lingua e non riesce a parlare; solo dopo lunghi tentativi e sforzi, sputa sul piatto dei fili neri che compongono le parole “Can you hear me?”. Ci rendiamo conto che la sedia di fronte è bucata e che manca l’interlocutore. La domanda che compare sul piatto indica la speranza che qualcuno si sottragga alla grande abbuffata di parole, per ricomporne la natura di scambio reciproco.
FB: Parlaci del tuo ultimo progetto, Phoenix (2009). Perché hai scelto di fotografare la tradizionale palma dei giardini mediterranei?
AG: Ho lavorato a questo progetto perché da tempo mi interessava la lenta scomparsa di questa pianta minacciata da un pericoloso coleottero, il punteruolo rosso. La perdita di un elemento così importante del nostro paesaggio dà inevitabilmente vita a una riflessione sul passato immemorabile, oltre che sulla natura devastata, costretta a implodere in un gesto di autoeliminazione. Di contro, viviamo in una società votata al consumo e all’abbondanza di beni. Così, in Phoenix, le immagini della palma trattenute nella nostra memoria si mescolano, creando un nuovo deposito di significati e continuando, al contempo, a evocarne la forza simbolica.