128 elementi, appesi a delle corde calate dal lucernario del Guggenheim a 21 metri di altezza. Più di 30 prestatori (musei, gallerie e privati hanno costituito uno specifico comitato per l’occasione). 50 uomini impiegati per l’allestimento durato 2 mesi con il contributo di uno studio di ingegneria. 20 persone della squadra di Toilet Paper (progetto editoriale di Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari) dedite alla documentazione e rielaborazione della mostra e dell’opening. 3 uomini dell’Archivio Maurizio Cattelan per il coordinamento del lavoro tra l’Italia e New York. Infinite pubblicazioni, interviste, monografie, testi critici o semplici racconti di vita con l’artista, usciti per l’occasione (sui numeri, qui, impossibile essere più precisi). 6500 visitatori durante la prima settimana di esposizione. 1 opera, 10 tonnellate di peso totale per un’altezza di 18 metri.
Sono questi i numeri utili, più di qualsiasi altro presupposto storico e critico, per iniziare a parlare di All, l’opera/mostra inaugurata al Guggenheim Museum di New York e che parrebbe dover chiudere la carriera — almeno per quanto riguarda le tradizionali categorie di arte visiva e plastica — di Maurizio Cattelan.
Se l’opera infatti riesce a sintetizzare, celebrare e storicizzare al meglio l’esperienza artistica di un singolo, in una certa maniera è come se rimandasse anche a tutte le persone e le figure che in questi anni hanno concorso al suo meritato successo. Si percepisce, cosa rara, quanto ci sia dietro a un lavoro del genere, quante e quali possano essere le energie che con capacità Cattelan è riuscito a catalizzare e indirizzare nel corso di una poco più che ventennale carriera.
Ma ovviamente non è tutto. Se per l’ennesima volta l’artista padovano è riuscito a mettere in discussione gli equilibri interni al mondo dell’arte sovvertendo l’usuale metodo di fruizione di cui si avvale la mecca progettata da Lloyd Wright — ponendo appunto la propria storia personale al centro dello spazio e costringendo il visitatore a uno sguardo verso l’interno del museo, anziché verso le pareti solitamente utilizzate per l’esposizione delle opere —, questa volta rimescola anche le carte della sua stessa vita ed esperienza artistica, eliminando ogni lettura di carattere cronologico e retrospettivo (leggi funebre) e offrendone una lettura organica e articolata su più piani, come se non vi fosse una maniera univoca per guardare alle opere ma soprattutto all’esistenza. In questo senso è altrettanto interessante notare come, per necessità allestitive o meno, poco ci importa, alcune opere quali Untitled (2009) — confidenzialmente chiamato INRI — sono state offerte al pubblico secondo nuove prospettive e angolazioni rispetto a quelle a cui eravamo abituati e forse assuefatti o, come nel caso dell’elefantino di Not Afraid of Love (2000) e delle formica che fa il gesto dell’ombrello (Untitled, 1995), associati tra loro secondo nuovi principi e logiche, senza considerare le date di realizzazione e permettendo per l’ennesima volta una visione alternativa a chi pensava di conoscere fin troppo bene quei lavori.
Nancy Spector, curatrice di “All”, nel catalogo sostiene che per Maurizio Cattelan il sistema dell’arte sia come il lettino dello psicoanalista, un luogo in cui potersi autoanalizzare ed esternare ad altri le proprie paure piuttosto che le proprie derive e ansie. Ecco, temo che sino alla prossima uscita più o meno ufficiale di Cattelan ad avere le paturnie saremo noi.