Julia Trolp: Spesso i tuoi lavori risultano da un processo, al punto che in alcuni casi si potrebbe quasi parlare di performance. Tuttavia, la tua attenzione non sembra concentrarsi unicamente sull’atto processuale, ma anche, e forse soprattutto, sugli oggetti che derivano da queste operazioni. Come descriveresti la relazione tra processo fugace e oggetto duraturo nel tuo lavoro?
Andrea De Stefani: Credo che la forma “oggetto” rappresenti solo uno dei numerosi momenti che concorrono al delinearsi di un’esperienza complessa, e che tra questi momenti sussista un rapporto di compartecipazione. Oltre all’oggetto, in alcune precise situazioni ho voluto consegnare al pubblico sguardo anche le connesse circostanze di realizzazione. Questo perché ho individuato nel carattere di alcune azioni rivolte alla “costruzione” di una forma (e nelle particolari condizioni del loro svolgersi) i presupposti adatti a rivelare l’intensità distintiva del gesto. In sostanza si è trattato di sondare l’estensione dell’esperienza, intesa appunto come insieme di svariati momenti potenzialmente prolifici.
JT: Parlando di processo, quasi automaticamente viene in mente anche il concetto di tempo. Che importanza ha per te e quanto incide sulle tue opere?
ADS: Penso che ogni opera interpreti diversamente il concetto di tempo. In genere, i miei lavori rispondono a un divenire perpetuo, e questo divenire è già di per sé una presenza fondamentale. Tendo a prendere in considerazione questo fluire misterioso fin dalla fase progettuale, nel tentativo di predisporre l’opera ad accogliere la trasformazione, in qualunque forma, come un’interazione complementare attesa e rigenerante, non avvilente. Questo ha probabilmente a che fare con la mia irriducibile volontà di controllo, con il disperato tentativo di estirpare alla radice il fallimento dall’esperienza “opera”. Certo, presupponendo che quest’ultima abbia una vita propria, relazionata a sguardi e contingenze esterne, ogni buon proposito preventivo legato al suo controllo può risultare fallimentare, ma fa parte del gioco. Come suggerisce Samuel Beckett — “Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better” — posso comunque tentare di fallire meglio.
JT: Il confronto con la natura sembra essere un’ulteriore e decisiva costante della tua ricerca: api, larve di mosche, piante o pietre sono state oggetto delle tue indagini artistiche. Da dove viene questo interesse verso flora e fauna?
ADS: Vivo un rapporto conflittuale con la natura. Sono affascinato dal suo “portamento amorale” e mi scopro ripetutamente paralizzato davanti all’intensità di certe sue manifestazioni. Non condivido la visione di una natura fragile, da proteggere. Credo che questa sia un’aberrazione, e non rappresenti che un espediente utile a esorcizzare una delle paure più cieche che l’uomo abbia mai conosciuto. Non volendo o potendo sottrarmi a questa inquietudine tento di indagarla, magari mentre si palesa nel semplice confronto (o incontro) con i fenomeni ordinari. Già osservando il primo volo (o approccio allo spazio) di una mosca, si rivelano i miei limiti percettivi e i limiti della realtà che posso strutturare. Così, l’atto stesso di osservare una forma di esistenza “altra” implica e sollecita una sensazione di mancanza che, forse per compensazione, alimenta il mio immaginario e innesca meccanismi di reazione che ritengo fondamentali, tanto nel mio vivere quotidiano quanto nel mio approccio all’arte. È una pratica salvifica: provare a estorcere una forma di respiro a ciò che non posso risolvere.
JT: Sembri essere in costante produzione — è sorprendente vedere quanti lavori sono nati solo negli ultimi due anni. Ci possiamo aspettare da te un futuro altrettanto produttivo?
ADS: L’inattività è una condizione che oggi non mi riguarda di certo, ma è anche chiaro che i ritmi di pensiero e di produzione possono subire l’influenza di numerose variabili impreviste. Per ora mi affido alla mia curiosità ossessiva, spero che questa pulsione vitale mi accompagni a lungo.