Universi personali. O meglio, insoliti paesaggi con figure. Con, per chi li guarda, un bizzarro senso di condivisione. Forse la traccia del ricordo di un’appartenenza. Le opere di Andrea Dojmi sono di fatto degli assemblaggi. E prendono forma per cicli. Ci si avvicina man mano a un oggetto finale in cui una grande narrazione, destinata a rimanere dissolta sullo sfondo e a malapena intuibile, riarticola brani di discorsi visivi e sonori apparentemente disparati ma fra loro imparentati. Ma di che universi mitografici stiamo parlando? E in che direzione si espandono? L’immaginario di Dojmi è abitato da vari elementi: attrezzi e strutture ortogonali di esplicita ascendenza sportiva, ma anche edifici e architetture religiose o parascientifiche, a volte militari. Oppure luoghi apparentemente deserti, immersi in paesaggi alpini innevati e ancora lande, o coste bagnate dalla luce del sole. E campetti da gioco temporanei, pronti ad accogliere coreografie, improvvisate o spontanee, di bambini o di passanti casuali. In effetti, come accade spesso per i più curiosi artisti della sua generazione, benché l’opera di Andrea Dojmi stia di fronte al suo spettatore, il suo cuore è altrove. In un altro luogo, senz’altro in un altro spazio. Ma anche in un altro tempo. Cominciamo da qui: indubbiamente il soggetto di partenza per la ricerca di Dojmi è l’infanzia. È in quel mondo a parte, dove vivono le strutture educative visivamente più perfette e improbabili, che Dojmi scava a recuperare repertori e suggestioni pronti ad assumere forme inedite, apparentemente impeccabili ma sottilmente perturbanti. Ne nascono installazioni dove sono riassemblati ricordi, sensazioni, e dove il colore trionfa disposto secondo piccoli tradimenti di ordini interni che richiamano le più consolidate trame del Modernismo novecentesco, tra tensione costruttivista e rigore De Stijl. E cavalcando un’onda che cresce e si rigenera, sotto la regola di un fare meticoloso e quasi artigianale, l’universo di Dojmi si è recentemente espanso verso le immagini in movimento, la performance e la ricerca sonora. È nella ricchezza del live media, per esempio in Education and Protection for Our Children n. 2 (in collaborazione con Port-Royal, band di elettronica dalle sonorità post-rock), che l’immaginario di Dojmi si ricompone nella forma più ricca, visionaria e vibrante. In quella doppia proiezione, così come nei suoi ultimi video, fra strati di immagini dai formati più diversi, fra digitale, 16mm, Super8 e fotografia, si inseguono impressioni, campiture colorate a pieno schermo e bagliori di ricordi, con protagonisti animali, mezzi di trasporto ed edifici dal fascino moderno, razionalista e orgogliosamente utopico. Scanzonato, dirompente, in bilico tra essere animalesco e ricercatore di laboratorio, Dojmi insegue visioni magiche e squarci di paesaggi individuali in giro per il pianeta come fosse un balzano geografo, anarchico e rabdomante. Come in effetti, molto probabilmente, è.