Maurizio Cattelan: Voglio cominciare con qualcosa che hai detto a Mery Nonha a proposito di Shadows on The Façade, quando stavi facendo le riprese all’Iberia Hotel; possiamo parlarne?
Andro Wekua: È avvenuto nella stanza 402. Il suo viso era pallido, calmo e liscio. Erano le 3 del mattino.
MC: Cosa è successo?
AW: Eravamo seduti lì, e più o meno tutti sapevamo che ogni cosa era pronta.
MC: Anche Mery era lì?
AW: Sì, ed era così bello che tutti potessero baciarle il culo.
MC: Non c’era molta luce di notte per le riprese.
AW: Appeso al soffitto, c’era un lampadario con diciassette lampadine, così l’abbiamo utilizzato. Le persone erano in mezzo alla strada e sono arrivate in albergo tardi, ma ci eravamo organizzati in modo che sulla scena ci fossero abbastanza ombre. A Mery piaceva questa idea: del resto, quando ci si focalizza su un’idea — sebbene si tratti solo di un frammento —, quest’ultima apre la porta ad altri frammenti che vogliono a loro volta agganciarsi all’idea; così siamo andati avanti. E lavorando anche con altri piccoli pezzi, elementi di scena, in modo che un’intera scena non risultasse mai uguale. Poi, quando vedi tutto l’insieme e non funziona, si sperimenta dell’altro per farlo funzionare, poi si crea la mescolanza di suoni e musica, e questo cambia le cose e…
MC: È molto diverso, dunque?
AW: Per molti aspetti sì. Ma di solito è meglio. È meglio di ciò che avevi immaginato: alcune scene possono risultare simili a come le hai pensate; perché, sai com’è, trovare delle location che non corrispondono esattamente a ciò che avevi in mente… Insomma, ci sono sempre delle differenze. Ma il mood e il sentimento, da quando hai concepito queste idee originali su cui indagare, solitamente sono abbastanza simili… ma del resto tu lo sai, c’è sempre un sentimento, qualcosa di diverso rispetto a ciò che avevi immaginato prima.
MC: Le finestre sono scomparse; anche le cornici?
AW: Be’, è sempre difficile spiegare i sogni in maniera razionale, no? Sai, lei ha un’educazione cattolica, e questo si ripercuote sui suoi sogni, sul suo carattere, oltre che sul suo modo di comportarsi. Non ricordo esattamente cosa volevo fare, ma ora è troppo tardi, e in realtà non ci penso più così tanto. Avrei dovuto rivedere il film.
MC: In che modo sei arrivato a lavorare con Mery Nonha?
AW: Quando me l’hanno presentata mi ha stretto la mano abbastanza gentilmente. Mi hanno detto di accomodarmi nel suo camerino, e così ho fatto. Mery era totalmente concentrata a struccarsi ma ogni tanto mi lanciava furtivamente un’occhiata, senza dire nulla. Io ho continuato a rimanere seduto. Poi, improvvisamente, sono entrati tre o quattro allegri scagnozzi per aiutare a creare quell’atmosfera confidenziale così necessaria per svelare segreti coniugali. Mery ha continuato palesemente a rimanere in silenzio, assorta in quello che stava facendo prima, per poi unirsi a uno dei suoi scagnozzi che aveva cominciato a saltare. Si è spostata ed è saltata lì, silenziosamente, senza alterare di un pelo l’abituale solennità del suo volto. Era grottesco. Avrebbe potuto essere una marionetta strattonata dall’alto. Ma i tre o quattro corpulenti omaccioni, affamati, cominciarono a dirigersi verso il ristorante. In quel momento c’erano solo Mery, il suo pr e io.
MC: Dov’è ora?
AW: È rimasta seduta lì, immobile. Solo la brezza marina leccava il suo volto.
MC: Non vedeva se stessa?
AW: No, solo ombre bagnate.
MC: Ho sentito che sul set di Shadows on The Façade eri sempre in ritardo. Che problema avevi?
AW: Sai, un sacco di persone hanno problemi veramente strani, cavolo! E preferiscono tenerli nascosti. A me invece capita ogni tanto di mostrane uno: sono sempre in ritardo. Suppongo che la gente pensi che sia un atteggiamento arrogante, io invece credo che sia l’esatto opposto. Non mi ritengo una persona che va di fretta, ovvero devi andare e devi farlo in fretta ma non per buoni motivi. Il fatto è che voglio essere preparato quando arrivo sul posto per dare una buona performance o altro, voglio essere al meglio delle mie capacità. Tanti possono essere puntuali e non fare nulla, come mi è successo spesso di notare, e, lo sai, alla fine stanno tutti seduti a spettegolare e parlottare della loro vita sociale. Mery Nonha ha detto di me: “Quando arriva, arriva. Tutto di lui è qui. È qui per lavorare”.
MC: E tu invece cosa mi dici di lei?
AW: È stata grandiosa, estremamente generosa. Una volta le ho detto “Mery, sei così elegante, come mai?”. E lei ha risposto: “Ah, è la giacca… Oh, Yves Saint Laurent l’ha fatta apposta per me, l’ho presa ieri a Parigi”. E io: “È una giacca bellissima” e così se l’è sfilata e me l’ha lanciata dicendo “prendila, è tua”. Mi avrebbe dato anche la sua macchina in mezzo secondo, solo perché aveva voglia di farlo. Naturalmente, poi gliel’ho restituita.
MC: Dove è ora?
AW: L’ultima volta che l’ho sentita è stato tramite una lettera che mi ha scritto. Vuoi che te la legga?
MC: Sì, grazie.
AW: È successo un paio di anni fa. “Sto cominciando a sentirmi come se, una volta arrivata qui, fosse già tempo di andar via. Tu sicuramente capisci quello che voglio dire. In realtà, davvero non so perché sento l’urgenza di scriverti. La lettera che ho scritto negli ultimi giorni è andata perduta da qualche parte per le strade di Tehran, forse ho deciso di farlo perché non sono mai stata così vicina al tuo paese, alle strade senza nome. O forse è solo perché non ho scritto una parola per più di una settimana e mi mancava. Oggi abbiamo guidato — su una strada a scorrimento veloce — attraverso montagne incredibili. Sembravano così fragili, come se potessero crollare da un momento all’altro. Erano rosse, viola e giallo zafferano, ricoperte di erba verde. Non appena alcune nuvole hanno riempito il cielo, un arcobaleno è apparso proprio di fronte alla nostra macchina. Anche il guidatore ha sorriso in quel momento, per la prima volta dopo diverse ore di curve tra fantastiche valli e rigogliosi alberi di mele. Non riuscivo ad abituarmi ai guanti neri che ha continuato a indossare per tutto il tempo e con cui provava a nascondere e proteggere le sue mani, sfigurate dall’artrite e da una malattia della pelle; ma il risultato era che mi sentivo a disagio. Quel viaggio che non abbiamo mai fatto, non l’ho mai rimpianto tanto come oggi. Ricordi, l’hai cancellato solo un paio di giorni prima di partire. Ero abbastanza delusa e mi sono girate le palle. Non ho mai capito perché alla fine hai cambiato idea. Sei stato laggiù per un po’, non è vero? Non ti manca casa? Forse è un po’ troppo chiamarla casa dopo tutti questi anni, ma d’altra parte, quanta gente continua a vederti come qualcosa di esotico…? Credo che ci siano due tipi di persone: quelle a cui non piace parlare di se stesse, e quelle che lo fanno, e sono coloro che non si ascoltano quando raccontano qualcosa di personale. Infatti, credo che tu sia un’eccezione. Non appartieni a nessuna categoria, ma non me la sento di inventarne una appositamente per te. Ho solo bisogno di una spiegazione che non sia una scusa. Eppure sono sicura che tu sappia che mi fido di te, e forse un giorno faremo questo viaggio. Sono un tipo impaziente, lo so, oppure forse ho solo bisogno di ripartire nuovamente”. Nessuno ha avuto sue notizie da allora, quindi deve essere rimasta in Iran.
MC: E cosa le hai detto del film?
AW: “Dobbiamo parlare nei prossimi giorni dei nostri progetti futuri” — ho detto non appena ci siamo scambiati i saluti — “abbiamo così tanto da fare e non possiamo farci sfuggire questa opportunità”. Questo è successo dopo che abbiamo girato l’ultima scena.
MC: Che cosa era?
AW: Un sole rosso, dell’acqua indaco, un cielo viola. Rosa. Ombre in cima alla passeggiata. Una facciata, un edificio, un angolo dell’edificio. Un marciapiede. Una Mercedes SL 350, ombre sull’asfalto bollente. La portiera di sinistra lasciata socchiusa. Sono sveglio. Ombre sul sedile posteriore. Un uccello che dorme in cima alla portiera.
MC: Grazie, Andro.
AW: Grazie, Maurizio.