Che il web sia un patrimonio culturale immenso, che racconta come pochi altri media questo turbolento ventennio a cavallo del secolo, è un’idea condivisa a parole da molti, se non da tutti. Tuttavia, le iniziative che lavorano alla sua conservazione sono ancora poche e parziali. La più nota è l’Internet Archive (archive.org), un’associazione non profit fondata nel 1996 con sede a San Francisco, il cui motto è “universal access to all knowledge”. L’IA collabora con istituzioni come la Library of Congress e lo Smithsonian, accetta donazioni di dati, e archivia una versione parziale di ogni sito che riesce a raggiungere. Oltre a poter accedere a migliaia di software, testi, immagini e video altrimenti irreperibili, attraverso la sua “macchina del tempo” potrete visionare, con un po’ di fortuna, la prima, imbarazzante versione della vostra home page, ma anche siti ormai scomparsi, fra cui diverse opere d’arte.
Non è per salvare se stessi, tuttavia, che molti artisti hanno deciso di affiancare l’IA nella sua sacrosanta crociata per la conservazione di Internet. La salvezza dell’arte in rete è affidata, per ora, a collezionisti pubblici e privati, e soprattutto a organizzazioni come Rhizome, con il suo imponente e ben curato “Artbase”. Ciò che interessa agli artisti, invece, è soprattutto la salvezza di ciò che Olia Lialina e Dragan Espenschied — artisti essi stessi e docenti alla Merz Akademie di Stoccarda — hanno chiamato “digital folklore”: vale a dire, quell’immenso patrimonio di sfondi stellati, gif animate, layout e stili di impaginazione, video amatoriali, fotografie e gattini, prodotto e condiviso dall’anonima armata dei computer users”, a cui i due hanno dedicato il loro ultimo libro, Digital Folklore: To Computer Users, with Love and Respect. Perché sono stati gli utenti, più che aziende e web designer professionisti, a fare la storia di Internet, a condizionarne l’estetica e la peculiare cultura visiva.
Prima dell’avvento del Web 2.0, uno dei luoghi in cui questa storia è stata scritta era Geocities, un servizio di hosting gratuito lanciato nel 1995 e acquisito da Yahoo nel 1999. In quegli anni, Geocities si popolò di migliaia di home page amatoriali, spesso mal disegnate e poco funzionali. Con l’avvento dei social network e delle piattaforme di blogging, Geocities perse valore come investimento commerciale, e nel 2009 Yahoo decise di chiuderlo. Tra il giorno dell’annuncio e quello dell’effettiva chiusura, l’Archive Team — una squadra di hacker il cui motto è “we are going to rescue your shit” — salva un terabyte di pagine di Geocities, e lo mette a disposizione di chiunque voglia scaricarlo. Lialina ed Espenschied avviano immediatamente il download , e nel 2011 inaugurano un blog intitolato “One Terabyte of Kilobyte Age”, in cui condividono e commentano i frammenti più interessanti scovati analizzando quell’immensa mole di materiali.
Alla missione impossibile di “archiviare Geocities” si sta dedicando anche, dal 2009, il sito Internet Archeology, gestito dall’artista americano Ryder Ripps e sostenuto dall’IA. Il suo obiettivo è “esplorare, salvare, archiviare e mostrare gli artefatti grafici che testimoniano l’origine della cultura di Internet”. In altre parole, Internet Archeology è un’immensa collezione di pagine web, immagini statiche e animate, trovate dall’autore e dai suoi collaboratori o caricate dagli utenti. Inoltre, il sito ospita delle “Guest Galleries”, progetti d’artista ispirati dal vecchio Internet o che fanno un uso consistente di materiali d’archivio. Poche settimane fa, per esempio, è stato lanciato il progetto “Mausoleum II”, di Krist Wood: un “monumento” a un genere specifico e particolarmente prolifico di video amatoriale, gli studi fisici di modellatori 3D alle prime armi, che per lo più lavorano sulla forma base del cubo. Wood nobilita il genere riscoprendo ed esaltando le implicazioni sacrali di questa forma geometrica elementare.
Ma progetti estremi come One Terabyte e Internet Archeology non fanno che sistematizzare un approccio condiviso da molti altri artisti. La pratica di raccogliere e archiviare gli artefatti prodotti dai “computer users”, frammenti del nuovo e del vecchio web, per poi ripubblicarli in raccolte ordinate e curate o remixarli nel proprio lavoro, si è profondamente radicata nel corso del decennio. È come se l’esplosione di pratiche creative amatoriali dell’era di Internet spinga gli artisti a rilanciare le strategie di archiviazione e di sistematizzazione del reale inaugurate da alcuni artisti pop (si pensi alle “time capsules” di Andy Warhol), approfondite e portate all’estremo dall’arte concettuale (da Bernd e Hilla Becher alle stazioni di benzina di Ed Ruscha ai “Variable Pieces” di Douglas Huebler) e rilanciate da alcuni artisti degli anni Ottanta, in particolare Richard Prince. Dopo la stagione dei gruppi di navigazione (“surfing clubs”), questa strategia di archiviazione come pratica artistica ha trovato espressione soprattutto sulla piattaforma Tumblr (tumblr.com), che agevola una forma di blogging sociale basato soprattutto sulle immagini. Per questi artisti collezionisti, l’americano R. Gerald Nelson ha coniato la definizione di “image aggregators”.
Nell’aprile 2010, nell’ambito di un progetto di collaborazione fra artisti e ingegneri, Rhizome ha invitato il creatore di Tumblr, David Karp, a lavorare a un progetto assieme a un altro grande collezionista di immagini, Ryan Trecartin. Il risultato, lanciato in ottobre, è il sito riverofthe.net, che consente agli utenti di caricare delle brevi clip video di 10 secondi associate a delle parole chiave, che possono poi essere utilizzate per la navigazione. In assenza di interazione da parte del visitatore, le clip scorrono fluide, come un fiume. Il fiume della rete, in cui non è facile immergersi senza riemergere con qualche tesoro.