“Au commencement il y a la lumière”, scrive Marianne di Vettimo nella poesia che fa da incipit all’opera teorica di Francesco Lo Savio, Spazio-Luce. Evoluzione di un’idea (De Luca/Galleria La Salita, Roma, 1963). Un incipit quasi biblico, in cui la moglie dell’artista romano attribuisce alla luce un ruolo generatore, descrivendola come genèse, essence, source e vie. La luce, “genesi”, “essenza” e presupposto di “vita”, è senz’altro la premessa della ricerca artistica di Lo Savio.
Siamo allo scorcio degli anni Cinquanta. In un’Italia dominata dal caotico sentimentalismo dell’Informale, la luce è metafora di un nuovo inizio. Un forte vento di rinnovamento batte le capitali italiane dell’arte, Roma e Milano. La fulminea parabola di Azimut/h, la rivista-galleria fondata da Enrico Castellani e Piero Manzoni (1959-60), infiamma la scena artistica meneghina. Zero, il movimento capitanato da Heinz Mack e Otto Piene, conquista con le sue promesse di azzeramento (“Zero come zona di silenzio e pura possibilità per un nuovo principio”, nelle parole di Piene) artisti nostrani quali Lucio Fontana, Agostino Bonalumi e lo stesso Manzoni – un territorio fertilissimo per la consacrazione, da lì a pochi anni, delle nuove tendenze cinetico-programmatiche (decisamente anti-informali). In pittura si riparte dalla tela bianca. E su tale tabula rasa la luce contribuisce alla definizione di una nuova spazialità.
Lo Savio (1935 – 1963) assorbe e metabolizza le istanze di azzeramento del clima culturale del tempo. Dopo un timido esordio pittorico di matrice informale, ricomincia dalla tela sgombra, intatta. Proprio qui entra in gioco la luce, come unico elemento di strutturazione della superficie. Essa complica e dilata il piano del dipinto. Nei lavori pittorici di fine anni Cinquanta, “diretti principalmente allo sviluppo di una concezione spaziale pura”, come lui stesso dichiara” [F. Lo Savio, op. cit., p. 8], la luce infonde all’impasto una caratteristica mutevolezza cromatica, capace di smuovere il piano del dipinto per aprirlo a una virtuale terza dimensione. Spazi-luce, li chiama Lo Savio. Superfici monocrome sui toni del giallo, del verde e del grigio, increspate da sottili variazioni cromatico-luminose. Gli Spazi-Luce sono frutto di un rigoroso impianto teorico e concettuale: si tratta di materializzazioni di “spazi-idee” o “spazi-energie”, a detta dell’artista; opere pulsanti, dinamiche, che tentano un contatto – tramite le vibrazioni di un “flusso ottico” – tra “superficie estetica” (quella del dipinto) e “spazio ambientale” (la realtà circostante). Queste tele, definite da John Anthony Thwaites “stereoscopiche, ipnotiche”, hanno al centro un cerchio luminoso, simile a “un sole intravvisto a malapena dietro la nebbia” [J. A. Thwaites, “Exhibitions in Germany”, in Pictures on Exhibit, marzo 1961]. Gli Spazi-Luce assomigliano a visioni, ad apparizioni sfumate e sbiadite. Lo confessa lo stesso Lo Savio che, in un testo del catalogo pubblicato in occasione della sua personale alla Galleria Selecta nel 1960, scrive: “Queste visioni di spettri luminosi si sono sviluppate in me lentamente; solo più tardi si determinò la coscienza di un motivo originario: la luce” [F. Lo Savio, in Lo Savio, catalogo della mostra, Galleria Selecta, Roma, 1960].
L’ossessione di Lo Savio per la luce è anche un’ossessione per lo spazio, non solo quello della tela ma anche quello del mondo – due spazi, uno estetico l’altro reale, che l’artista cerca di unificare, trasformando la tela in un’esperienza concreta, vitale, tangibile. Non è un caso che Lo Savio, prima di diventare artista, fece studi d’architettura, interessandosi a Gropius e al Bauhaus; né che, per un breve lasso di tempo, parallelamente al suo esordio pittorico, lavorò come designer. Le sue Articolazioni Totali (1962), cubi di cemento bianco contenenti all’interno piani di metallo nero, strizzano l’occhio all’estetica dell’industrial design e suggeriscono interni architettonici. La sua Maison au Soleil (1962) è un prototipo abitativo ispirato alle architetture marsigliesi di Le Corbusier e, in questo senso, un ulteriore tributo alla luce solare: qui la luce definisce e articola i volumi architettonici – due ali semicircolari che si dipartono da un corpo centrale semisferico. All’aspetto, Maison au Soleil è una sorta di sole parzialmente privato della sua fotosfera.
Come per Lo Savio, la luce in quanto elemento di strutturazione dello spazio è il fulcro dell’indagine dell’artista milanese Amalia Del Ponte (Milano, 1936). Un’artista-scienziata, la cui pratica scultorea si configura come esperimento ed esplorazione delle potenzialità della materia. Sono i primi anni Sessanta quando Del Ponte, ex allieva di Marino Marini all’Accademia di Brera, testa le dinamiche di rifrazione della luce su materiali come marmo e bronzo. In questi anni produce piccoli bozzetti scultorei, le cui superfici tirate a lucido danno vita a piani luminosi. È del 1965 il suo primo tropo, una struttura in plexiglass capace, attraverso un gioco di rifrazioni luminose, di espandere la materia trasparente che lo compone. La luce, nelle sperimentazioni dell’artista, non assolve a una pura funzione ottica: è sostanza e materiale della scultura; elemento imprescindibile alla definizione di una nuova spazialità. L’innovazione tecnologica consente a Del Ponte di sviluppare ulteriormente la propria ricerca sui tropi. Alla fine degli anni Sessanta è possibile far produrre industrialmente forme in plexiglass di grandi dimensioni: nel 1969 l’artista realizza prismi a base triangolare alti quasi due metri. I tropi, cresciuti in altezza e larghezza, assumono una connotazione ambientale: da prototipi scultorei, divengono elementi in grado di strutturare (o meglio, de-strutturare) spazi abitabili e percorribili dal visitatore. Le dinamiche percettive dello spettatore, pertanto, rientrano ora nello spettro d’interesse di Del Ponte.
Area percettiva è un ambiente cubico di 36 metri quadri, delimitato da muri bianchi e illuminato da lampade al quarzo. Uno spazio luminosissimo, al cui interno sono collocati due grossi prismi in plexiglass. È con quest’opera, parzialmente distrutta, che Del Ponte si aggiudica il Primo Premio per la Scultura alla Biennale di San Paolo del ‘73. Quattro oggetti, ermetici e misteriosi, definiti da Del Ponte “punti di riferimento” – una cartolina delle Torri Gemelle, due occhi stilizzati in marmo, un biglietto con un numero di telefono e un’impronta di una mano su gesso – sono appesi alle pareti dell’installazione. A causa della luce accecante paiono fluttuare in questo spazio virtuale, uno spazio complicato dalle rifrazioni e riflessioni attivate dai prismi trasparenti. Il visitatore è colto da un disorientamento visuale ed emotivo; piuttosto che con i propri occhi, abbagliati dalla luce, è invitato a esperire l’ambiente con il tatto e con il proprio corpo. Tommaso Trini, in una recensione dello stesso anno pubblicata su Domus, racconta: “Il pubblico della Biennale, un pubblico enorme, ha invaso l’ambiente con interesse vivissimo e lo ha quasi distrutto, rompendo anche i prismi”. [Domus no. 534, maggio 1974, p. 49]
Area percettiva di Del Ponte, concettualmente, ricorda l’esperienza degli Ambienti cronotopici di Nanda Vigo, elaborati dall’artista-designer milanese negli anni Sessanta. Come afferma nel suo secondo Manifesto cronotopico, presentato nel ’64 alla galleria La Salita di Roma, il Cronotopo – una stanza luminosissima delimitata da pareti di alluminio, plastica o vetro – è la materializzazione di un “postulato cinquedimensionale introducente all’adimensione”. La luce, filtrata da materiali che distorcono la percezione dell’ambiente, diviene il mezzo attraverso cui esplorare uno spazio a-dimensionale, non misurabile topograficamente. Un luogo in cui tempo e spazio si fondono in un’entità altra, imponderabile. Nelle installazioni di Vigo e Del Ponte, pertanto, il presupposto scientifico-sperimentale da cui le opere traggono origine, conduce a “derive” quasi metafisiche. La luce, più che rischiarare, acceca: annulla la percezione razionale per attivare un’esperienza altra che genera un senso di smarrimento e, simultaneamente, di liberazione.
Una luce metafisica e concettuale, che non illumina per mostrare ma che agisce sulla psiche, generando emozione, irradia gran parte della produzione culturale italiana del secondo dopoguerra. Pensiamo ai set dei film di Antonioni, in primis L’eclisse (un’allusione, già nel titolo, a un sinistro fenomeno di oscuramento luminoso): le lampade che illuminano, nella scena iniziale, l’appartamento di Vittoria e Riccardo (fuori è mattina, il chiarore del giorno penetra dalle pesanti tende di velluto) accentuano l’insensatezza di un drammatico accadimento – la fine di un amore. Un’illuminazione dagli effetti psicologici, più che strettamente utilitari, è quella che Del Ponte, anch’ella designer come Vigo e Lo Savio, produce per l’attico della casa della famiglia Medolago a Bergamo (1970): una linea al neon che percorre l’intero perimetro della stanza, disegnando saliscendi luminosi. Tale striscia di luce spezzettata trasfigura lo spazio dell’abitazione, caricandolo di mistero.
Dopo l’accecamento luminoso viene la visione mistica. La luce che abbaglia e stordisce, oscurando la vista, rivela una dimensione ultraterrena. Diego Marcon (Busto Arsizio, VA, 1985), nel film Pour vos beaux yeux (2013), sembrerebbe riprendere alla lettera quelle “visioni di spettri luminosi” di cui ci parla Lo Savio. Realizzato durante una residenza al Centre International d’Art et du Paysage all’Île de Vassivière, il film – prodotto con una vecchia telecamera Super8, poi trasferito su digitale – consiste in una sequenza di immagini silenziose (della durata di circa 8 minuti) di nuvole in movimento sopra il lago francese. Il bianco è il colore (o meglio, il non colore) dominante; la luce, intensissima, è la protagonista indiscussa dell’opera. Pur tentando di “galvanizzare il senso della vista con l’esercizio del ‘cloud spotting’”, come sottolinea Barbara Casavecchia in un pezzo apparso su Frieze [no. 178, aprile 2016], il video è, in realtà, un tributo alla non-visione, all’accecamento e alle potenzialità immaginative dell’occhio abbacinato. Più che una descrizione impressionista di una porzione di cielo, Pour vos beaux yeux (il titolo tratto da un film surrealista del ‘29 del cineasta belga Henri Storck) materializza un’apparizione. Ricchissimo è l’archivio visuale di Marcon: in una pubblicazione presentata in concomitanza alla sua personale da Gasconade nel 2013, e intitolata Cloud Studies, l’artista ha raccolto le fonti visive dell’opera, tra cui compaiono studi di nuvole di Ruskin, Constable e Delacroix, oltre a dettagli anatomici tratti da dipinti di Whistler e Correggio. Ma è una visione luminosa astratta quella che riempie lo sguardo degli spettatori di Pour vos beaux yeux. Proprio qui entra in gioco la mistica, in particolare l’esperienza delle estasi di Maria Maddalena de’ Pazzi, la cui lettura ha appassionato Marcon: è nel bianco accecante della visione, nell’annullamento del sé e della percezione del mondo terreno, che si manifesta la presenza del divino. Quello mistico, è del resto un soggetto esplorato dall’artista in un video precedente, Litania (2011): qui la telecamera riprende i rituali di preghiera dei pellegrini in visita a Medjugorje, che sostano ai piedi di statue immobili e silenziose. Lentamente cala la sera: splendide inquadrature di nuvole rosee, macchiate dalla luce del tramonto (premessa delle bianchissime nuvole di Pour vos beaux yeux), precedono scene girate in notturna, che mostrano la statua della Madonna illuminata artificialmente. Se Pour vos beaux yeux mette in scena l’abbagliamento visivo, Litania mostra l’altro lato dell’accecamento mistico: il dissolversi al nero dell’immagine, il retrocedere al grado zero della visione. “Un film che si spegne”, lo definisce Marcon. A scandire le fasi di tale oscuramento visivo è il canto notturno delle cicale: una litania che suona come un rituale o, meglio, una liturgia.