Maurizio Cattelan è in tutte le mostre più importanti, in tutto il mondo. E non esagero. La sua carriera viaggia alla velocità della luce: ha iniziato a esporre alla fine degli anni Ottanta a Milano — poi il salto di categoria più o meno una decina di anni fa. Da non so nemmeno quanto tempo, Cattelan passa per il rappresentante ufficiale e più insigne della nuova generazione dell’arte italiana, e intanto si sprecano i paragoni con Alighiero Boetti — i due sono accomunati dallo stesso stile socio-concettuale con una sfumatura di nostalgia lirica. A quarant’anni Cattelan si è già conquistato una monografia nella prestigiosa serie Phaidon e il catalogo della sua retrospettiva al Castello di Rivoli è approdato alla seconda ristampa. A New York lavora con Marian Goodman, che resta uno dei punti di riferimento cruciali per l’arte concettuale in America, anche se ormai son passati più di vent’anni dalla mostra di Marcel Broodthaers con cui Miss Goodman ha aperto la propria galleria. E la nomina al premio Hugo Boss del Guggenheim sembra l’ennesima ciliegina sulla torta, arrivata più o meno negli stessi giorni in cui le opere di Cattelan conquistano nuovi record nelle aste di Christie’s e Phillips de Pury. In altre parole Cattelan è sulla cresta dell’onda, all’avanguardia, da sempre. Eppure, eccolo lì, Cattelan, che alza le spalle e si difende: “Non sono un artista”. All’arte è arrivato, dice, solo perché gli avevano detto che c’erano viaggi da fare, ragazze da incontrare e che dopo tutto l’arte non era un vero lavoro.
Durante uno dei nostri primi incontri, ho buttato lì la questione del suo successo improvviso, e Cattelan ha cominciato a gesticolare, urlare, protestare, mentre mi è apparso decisamente soddisfatto quando ho iniziato a chiamarlo “artista del cazzo” — mi sono inventata qualcosa che potesse calmarlo…Naturalmente è tutta una questione di giochi di ruolo, sfumature, affettazione: non mi ritroverei qui a scrivere questo testo, se davvero pensassi che Cattelan è un artista del cazzo — e non penso nemmeno che lui ci creda troppo. Soprattutto, non ho mai incontrato nessuno che avesse una bassa stima di lui.
Cane mangia cane
Nella cosmologia di Cattelan c’è sempre una qualche circostanza terribile della quale approfittare o un fallimento catastrofico dal quale sfuggire all’ultimo minuto, per l’ennesima volta. Oppure c’è un piano da portare a termine, una mostra da concludere al più presto o un colpo basso da assestare ai danni di qualcuno.
Cattelan mi ha detto che ha cercato di uccidere suo padre. Ho controllato tutte le sue biografie, non c’è traccia di questo ricordo. Immagino sia successo poco prima che Cattelan decidesse di scappare di casa, a diciott’anni, con un sacchetto della spesa pieno delle sue poche cose. Questo l’ho trovato scritto da qualche parte, lo giuro.
Vent’anni dopo Cattelan ha trasformato in una forma d’arte la sua predisposizione naturale a radicalizzare le relazioni sociali, il suo talento viscerale per l’antagonismo. Cattelan è un giocoliere, un truffatore, fatto e finito. La sua fama se l’è conquistata violando qualsiasi legge, con qualsiasi mezzo necessario, più o meno audace. Le sue azioni si svolgono sulla linea sottile che divide il lecito dall’illecito, molto spesso i suoi interventi sono semplicemente criminali. Non so quante volte se l’è data a gambe portandosi via le opere di un altro artista o i soldi di un’istituzione. Di tanto in tanto se l’è dovuta vedere anche con la polizia. Ormai, se qualcosa va storto quando Cattelan è in città, non ci vuol molto a dargli la colpa. Lo chiamano “Cattelan style”: avete perso l’intero contenuto della vostra galleria? Date un’occhiata alla mostra di Cattelan, magari solo un paio di isolati più in là.
I’m a loser, baby. So why don’t you kill me?
Cattelan è il nemico numero uno di se stesso. Mentire, barare, rubare, fuggire: ecco i suoi impulsi fondamentali, reiterati all’infinito, con regolarità maniacale: Cattelan non ha idee per la sua mostra, e allora se la dà a gambe e lascia solo un cartello sulla porta, “Torno subito”. Non ha idee per la sua mostra, e allora se la dà a gambe con una corda di lenzuoli annodati, che penzola da una delle finestre del Castello di Rivara. Da perfetto criminale non farà mai ritorno sul luogo del delitto. Ancora una volta: Cattelan non ha idee per la sua mostra, e allora si presenta alla stazione di polizia più vicina e denuncia il furto di una sua opera invisibile. Non ha idee per la sua mostra, e allora vende il proprio spazio a un’agenzia pubblicitaria che lancia una nuova confezione di profumi. Non ha idee per la sua mostra, e allora si prende i soldi e se ne va in vacanza. Non ha idee e copia un’installazione di John Armleder e Paul-Armand Gette e installa la sua opera accanto a quella degli insigni colleghi. Non ha idee e allora copia di nuovo, questa volta approfittando di Carsten Höller, del quale riproduce perfettamente la mostra, che apre lo stesso giorno e proprio nella galleria accanto. Per non dire poi di quella foto con artisti e amici in costume da bagno che fanno la ola su una spiaggia dei Caraibi: happening estetico o vacanza tutto compreso? Poco importa, perché alla Biennale dei Caraibi, organizzata da Cattelan e Jens Hoffmann, non deve essere successo molto di più. Oh, certo, c’erano le pubblicità a colori in tutte le riviste più “in”, i comunicati stampa, il catalogo e naturalmente gli sponsor e i biglietti aerei per tutti quanti. Una biennale con tutti i crismi, ma senza mostra e senza opere d’arte, un piccolo dettaglio sistematicamente omesso nelle pubblicità: AAA artista cercasi.
Allora, Cattelan ha cercato di uccidere suo padre, ma non ce l’ha fatta. Anche se non ho voglia di perdermi nella psicologia di più bassa lega, resta un fatto: da allora Cattelan si è impegnato a mettere a nudo le figure paterne, ad attaccare le autorità. Si è impegnato a deridere, parodiare, infangare, insultare, compromettere, con qualsiasi mezzo necessario, e alla fine si è impegnato anche a perdere, sempre. Tutta la sua opera infatti è pervasa da un senso al contempo tragico e comico. E il fallimento resta la chiave d’accesso principale per penetrare il suo universo. Un senso di fallimento profondo, dal quale è impossibile sfuggire, e che paradossalmente manda avanti il lavoro di Cattelan, lo tiene a galla, lo fa sopravvivere. (Se poi vi chiedete da dove nasca questa contraddizione, beh, ho paura che non ci sia una risposta definitiva.) Allora dicevamo, il fallimento, e le figure autoritarie. Cattelan vuol giocare a fare Zorro, bene: eccolo lì, a sfidare i suoi mostri, i suoi zombie: il Padre, lo Spirito Santo, il Papa, e Picasso — e poi Georgia O’Keeffe e la Mafia, sì, Cattelan ha colpito anche loro. E che altro? I curatori, i galleristi, gli assistenti, i collezionisti, il pubblico, e già sospetto i suoi sentimenti nei confronti dei critici. E, ancora, i musei, le biennali, l’Arte con l’A maiuscola. E le torri d’avorio, le sacre sale del museo, il cubo bianco della galleria, il bel paese… Il Bel Paese? Sì, il bel paese, la madre terra, il paese natio, ma anche il formaggio preferito dagli italiani. L’etichetta del Bel Paese è stata trasformata in un tappeto sulla quale far camminare centinaia di persone, fino a infangarlo, deturparlo, cancellarlo. Il problema con le autorità, il problema con gli zombie e con i mostri è sempre lo stesso: devi continuare a ucciderli, perché risorgono, a volte ritornano, non muoiono mai.
Senza rete
Il fallimento non è una questione da poco. Non c’è niente da ridere. Cattelan sbaglia, fallisce, cade, e si rialza, cerca di fuggire e ogni volta si lascia beccare, con le mani in pasta, colto in flagrante. Sempre così, all’infinito. C’è qualcosa di magico, di misterioso nel suo fallimento: è sempre lì, sotto gli occhi di tutti, tranne che sotto gli occhi di Cattelan, perché lui è già scappato, è già altrove. Chiamiamola pure ansia da prestazione.
Eppure ci deve essere uno stratagemma, un piccolo trucco, un meccanismo di difesa che permette a Cattelan di salvarsi ogni volta. Il segreto è la dispersione del sé: Cattelan scompare eppure è sempre lì, nell’angolo, nascosto o in castigo. Gli animali tassidermizzati non sono altro che un suo alter ego, un Cattelan moltiplicato all’infinito. Anche quell’elefante: cosa ci fa un elefante nascosto dietro un lenzuolo? Chi vede l’elefante? Cucù, c’è nessuno?
Per non dire poi della sua legione di “Mini-me”, un esercito di pupazzi impacciati e demoniaci, che si riproducono a una velocità inarrestabile, come centinaia e centinaia di spermini — ecco, appunto, gli Spermini, un altro esercito di facce e messaggeri, tutti con il volto più o meno distorto di Cattelan, maschere di lattice di un ego debole esploso in mille pezzi. (Mi si conceda un altro excursus: date un’occhiata al brano di Philip Roth che Cattelan ha scelto per la sua monografia della Phaidon: un’altra esplosione, un’altra moltiplicazione).
Allora dicevamo, Cattelan si moltiplica e fallisce e cosa ottiene in cambio? La gente lo ama. Fallire è diventato per lui l’unico modo per avere successo. Fallendo, denunciando le sue debolezze in pubblico, Cattelan è stato incoronato vincitore, si è conquistato il ruolo di eroe e attivista. È questa la sorpresa più grande, il senso più profondo del suo lavoro: da quando infatti il mondo dell’arte ha imparato ad amare i perdenti? Voglio dire, quel mondo dell’arte che conosciamo tutti, spietato, duro, competitivo? Da quando in qua il mondo dell’arte si è trasformato in un luogo disposto ad accettare il fallimento? A dire il vero, non credo che la trasformazione sia ancora completa: in realtà, Cattelan non agisce solo nel mondo dell’arte, colpisce più a fondo. La sua opera getta le radici nella nostra esperienza quotidiana, nelle paure che proviamo, tutti, ogni giorno: quell’ansia che ci dice che non ce la faremo, che non scavalcheremo quell’ostacolo, non saremo mai all’altezza, questa volta lo sapranno tutti, tutti capiranno che sei davvero un fallito…Ecco, Cattelan ha imparato a estremizzare quest’ansia, l’ha elevata a sistema: fallisce, cade, e ogni volta il pubblico lo aiuta a rialzarsi. Su, Maurizio, fallo ancora, ecco un’altra mostra per te. Ecco altri soldi per te. Ma fallo ancora, Maurizio, quella cosa che sai fare solo tu: qualcosa di stupido, di intelligente, qualcosa per tutti noi, che tutti possano capire.
Uomo da marciapiede
Cattelan in fondo è una persona qualunque, un uomo della strada, che ha trovato un modo per raccontare una storia. Ma che storia? Una specie di fantasia proletaria: Cattelan non vuole più lavorare, Cattelan vuole avere un sacco di ragazze, Cattelan vuole girare il mondo e avere un sacco di soldi. Vuoi ridere? Vuoi piangere? Le storie di Cattelan sono fatte su misura per te: una ricetta perfetta. Un pizzico di critica contro le istituzioni, un poco di sesso, e un intruglio nel quale si mescolano arte e vita come nella migliore tradizione d’avanguardia. Aggiungete qualche luogo comune, una spruzzata di eroismo, e un fascino un poco retrò.
In fondo Cattelan è abbastanza astuto da aver trasformato il suo fallimento in un successo. La sua ansia da prestazione è solo una specie di marchio di fabbrica, solo un modo per infiltrarsi nel potere: ladro, buffone, artista, pirata, giocoliere, poeta, terrorista, venditore porta a porta, Houdini e super-eroe — oddio, super-eroe l’ho buttato lì così, solo per dare un’idea. Nella storia di Cattelan ci sono molte altre storie, molti altri personaggi, una schiera di ruoli da interpretare all’infinito, intercambiabili. Cattelan si lamenta, protesta, fallisce, solo per potersi trasformare in un eroe e alla fine salvare le sorti dell’arte.
La rivoluzione siamo noi
Cos’è la sovversione? Cos’è la rivoluzione? Appendere il tuo gallerista al muro, il buon vecchio Massimo De Carlo, con metri e metri di scotch? Oppure costringere un attore a indossare una gigantesca maschera da Picasso per dare il benvenuto ai visitatori del Museum of Modern Art di New York? Picasso trasformato in Mickey Mouse, il MoMA come Disneyland? È questa la rivoluzione? È abbastanza? O è solo una macchina da consenso? Fa paura a qualcuno? Cos’è la rivoluzione? Il Papa, sdraiato sul fianco, su una moquette rosso fiammante, schiacciato da un meteorite precipitato chissà come dal soffitto della Kunsthalle di Basilea? Cos’è la rivoluzione? Un museo vuoto, come al Migros di Zurigo? Cattelan svuota completamente lo spazio, eppure non grida nessuno, nessuno si arrabbia. Tutti passeggiano nello spazio deserto, nudo, niente opere, niente arte, niente di niente (certo il museo non poteva rinunciare alla funzione sacra del vernissage con il contorno d’obbligo di salatini e stuzzichini e camerieri). Se non fosse che qualche avventuriero corre il rischio di addentrarsi nei meandri del museo per scoprire, in fondo in fondo, un’altra piccola stanzetta e nell’angolo, sorpresa! Appeso a un attaccapanni ecco di nuovo Cattelan: un altro Mini-me, un alter ego miniaturizzato, che tiene l’intero museo in ostaggio e al contempo se ne sta in castigo in un angolo. Guardatelo in faccia. Dovevamo aspettarcelo, dovevamo saperlo. Ma niente paura, tutti sono già tornati alle tartine e agli antipasti. Non c’è rivoluzione? Cos’è la rivoluzione?
Forse non c’è più niente di sovversivo, niente che possa ribaltare il nostro mondo. Quelle di Cattelan in fondo sono solo scaramucce, piccole rivoluzioni portatili: Cattelan innesca una miccia, lancia un commento sarcastico, fa una battuta più o meno cretina — e poi si inchina. Vuole davvero fare a pezzi la cattedrale dell’arte? Ma se ci riuscisse, dove andrebbe a nascondersi? Potrebbe davvero tornare all’obitorio dove lavorava vent’anni fa? Cattelan in fondo è solo un uomo che scarica le proprie ansie e le proprie paure in pubblico: un uomo, o un artista, condannato al doppio gioco, che ogni volta riesce a farci credere di averla fatta franca, di essere sfuggito alla sua condanna, nello stesso istante in cui lo cogliamo in flagrante, con le mani in pasta. Quella di Cattelan non è una rivoluzione: è teatro.
Strane Storie
Cos’è la rivoluzione? L’opposizione al sistema dell’arte è sovversiva? No, è solo un gioco al quale partecipiamo tutti, facendo finta di ignorarne le regole. Allora, volete un vero gesto di insurrezione? Eccolo qui, fatto apposta per voi: un trucco, una magia. Voilà. Un’Audi nuova fiammante dalla quale spunta un albero vecchio di 300 anni. Un’altra gag di Cattelan, un’immagine impossibile, trasformata in realtà, in tre dimensioni: non c’è trucco, non c’è inganno. Un tromp l’œil. È questo il carattere sovversivo dell’opera di Cattelan: Cattelan ci intrappola in una visione, in un’immagine, e ci paralizza, sospesi nell’impossibilità di credere e nella volontà di perderci in un mondo di fantasia ed effetti speciali. Un’Audi con protesi vegetali, il Santo Padre fatto a pezzi, un elefante travestito che gioca a nascondino, un paio di mani in preghiera che spuntano dalla terra… Immagini memorabili, incredibili, e non importa se non vogliono dire niente. “La verità non è là fuori” cerca di spiegarci Cattelan. La verità te la inventi a poco a poco. Non serve sapere la verità, perché la verità non esiste. Prendi il fachiro della Biennale di Venezia del 1999: nessuno sapeva che cosa fossero quelle mani che spuntavano dalla sabbia. Erano di cera? Non possono essere vere. E di chi sono? È Cattelan, sì, sotto terra. E le storie si moltiplicano, i pettegolezzi rimbalzano. Sì, sì, è Maurizio. No, sono le mani di sua madre — sai Cattelan è un tizio davvero strano. Un fachiro, sono le mani di un fachiro? E che cavolo è un fachiro? (Un mistico indiano capace di incredibili rituali di sopportazione.) E che mani, poi? Io vedo solo sabbia. Tu hai visto qualcosa? Le mani? Ciascuno con una versione privata della propria storia, ciascuno con la sua verità da trasmettere tra un aperitivo e l’altro, tra una conversazione e l’altra: raccontare una storia, giocare, raccontare un’altra storia. E tutti ad aspettarsi da Cattelan un nuovo trucco, qualcosa che ci diverta, che ci distragga.
Ecco un’altra storia allora: gli animali, miniaturizzati, impagliati, impacciati, tutti vittime di uno strano dramma umano, troppo umano. Una parata di animali, un’arte che potrebbe facilmente scomparire nel flusso della cultura del consumo. Animali che stanno bene in galleria, ma che si troverebbero a proprio agio anche in un parco dei divertimenti o in un centro commerciale — che poi a ben vedere non sono poi così diversi dalle nostre fiere e dalle nostre mostre blockbuster, sempre più grandi ed entertaining. Che è come dire che l’arte di Cattelan non ha bisogno di essere definita arte: non rivendica il diritto a separarsi da tutto ciò che arte non è. Questa forse è un’altra piccola rivoluzione, così sovversiva da far quasi paura.
L’intoccabile
Cattelan si definisce un outsider, un paria, un reietto travestito d’artista, che lotta contro un ruolo che gli è stato imposto suo malgrado. Quello di Cattelan è teatro allo stato puro: un gioco di ruoli che ci costringe in un territorio di scambi simbolici e cambi di scena e di maschera. Cattelan è gentile, modesto, silenzioso, ma quando serve, eccolo trasformarsi in Superman: un reietto che gioca a fare il re dell’universo. Condanna a morte il Papa e paralizza un cavallo a mezz’aria, trasforma Picasso in un cartone animato, e un fachiro in una scultura… Ma, al contempo, con tutte le sue ansie, le sue fobie, le sue paure e fantasie, Cattelan continua a interpretare il ruolo dell’uomo comune: nella sua opera si mescolano autobiografia e una certa spontaneità bislacca che aggiunge un tocco di credibilità al suo personaggio. Intrappolato in uno psicodramma disegnato a tavolino, Cattelan accompagna gli spettatori nell’intreccio di relazioni sociali che compongono il suo processo creativo. E prima ancora di accorgercene, eccoci immersi in un mondo di finzione, nel canovaccio scritto da un eroe a dimensione naturale. (Quando Cattelan è in vena di confidenze, ti sembra davvero di sentire la sua tristezza, la sua sofferenza, la sua nostalgia e agonia. Ma forse anche questo è un trucco, giusto per conferire un tocco di realismo alla sua arte).
In altre parole, Cattelan è il nostro Avatar, un nostro alter ego, umano e vulnerabile, che trasforma il gioco dell’arte in un’imitazione perfetta della vita reale, uno spettacolo realistico fondato su strutture narrative ed emotive accuratamente costruite e manipolate.
Altri leggono nell’opera di Cattelan un confronto continuo contro le istituzioni e le regole del mondo dell’arte. E questa visione è intrinsecamente associata all’idea che l’arte contemporanea debba essere salvata, e che — implicitamente — Cattelan sia l’uomo giusto al posto giusto, l’unico che possa salvarci. Una visione così stereotipata da sfiorare il folklorismo: signori e signore, ecco il nostro eroe che batte il sistema, libera l’arte e noi piccoli umani indifesi potremo finalmente crescere in santa pace e in prosperità. Ecco un’altra interpretazione che mi sta forse più a cuore, perché spinge ancora più in là la sovrapposizione tra arte e vita, il gioco dei generi e dei ruoli: Cattelan è un attore, o forse un regista, che dispiega drammi umani e interpreta i ruoli inscritti nella propria opera. I suoi personaggi, i suoi alter ego, le sue immagini tracciano una serie di percorsi narrativi nei quali gli spettatori si perdono e si ritrovano, all’infinito, in un gioco di specchi senza fine. In altre parole, Cattelan si è inventato un personaggio, si è trasformato in un personaggio, al quale ha affiancato una miriade di comparse e comprimari, tutti costretti a interpretare se stessi: il fachiro, gli artisti invitati alla Sesta Biennale dei Caraibi, gli sponsor e i collezionisti, i membri insigni del pubblico, i suoi galleristi sottoposti ai rituali più spietati (anche se, devo dire, finora Marian Goodman l’ha fatta franca, no?).
Fratel coniglietto
Ecco quindi un’altra storia: un esercito di attori e personaggi impegnati a interpretare se stessi, e al contempo costretti a piegare il proprio ruolo a compiti inattesi, in un continuo sconfinamento tra il sé e l’altro. Nel teatro di Cattelan, ogni cosa è costretta a essere se stessa e a trasformarsi nel suo opposto, allo stesso tempo, nello stesso istante. Un albero che è allo stesso tempo morto e vivo, un gallerista che si trasforma in una caricatura di se stesso, in un coniglio e in un fallo. Personaggi reali, tempo reale, drammi reali, eventi reali, e un vero senso di generosità, che spesso però si traduce in parassitismo, il reale tradotto nel suo opposto. Sì, perché l’arte non riflette mai davvero il reale, lo distorce, lo trasforma: la traduzione non è mai letterale. Tutto è identico e tutto è diverso. E allora ecco un’altra storia. Ripartire da noi due. Abbiamo giocato a questo gioco migliaia di volte. Cosa c’è di personale? Il personale è uno spazio che abitiamo collettivamente. Allora, ci riprovo, ecco un’altra storia. Eccoci, di nuovo, tutti insieme ora, ciascuno preso dal suo ruolo, ciascuno trasformato in una metafora dell’arte e della sua storia, inarrestabile. È una storia semplice, con una struttura che ha il gusto del già visto, eppure ogni opera di Cattelan ha la capacità di soddisfare un nostro bisogno innato: il nostro desiderio che da sempre ci impone di immaginare ed esprimere il mondo in termini narrativi. Cattelan non è solo un attore, un regista, un cantastorie: la sua forza risiede nella creazione di un’esperienza reale, immediata, che trasforma la narrazione in un territorio di incontro e scontro, uno spazio di condivisione nel quale mescolare altri racconti e altre esperienze. E c’è ancora chi crede che l’arte non possa cambiare il mondo.