Mi è stato chiesto di scrivere di Betty Woodman nell’occasione della sua recente scomparsa. Ho avuto l’onore di conoscere Betty personalmente e lavorare intensamente al suo fianco per qualche anno; e posso dire, senza paura di essere smentito, di sapere molto di lei e del suo lavoro.
Forse qualcuno potrebbe aspettarsi un ricordo personale, e magari lontano dalla sfera professionale, ma così non sarà. Il motivo è semplice: per troppo tempo Betty è stata ignorata come artista perché, da un lato, la sua biografia ha soverchiato la sua produzione, dall’altro la sua stessa arte è sempre stata associata più al mondo delle arti decorative e applicate che a quello delle arti visive.
Per questo, proprio in onore della nostra profonda amicizia, ma anche della sua grande professionalità, so che l’omaggio che lei apprezzerebbe di più sarebbe quello di parlare del suo lavoro; e per farlo non ho trovato modo migliore che rivedere delle note, poi confluite nel mio testo intitolato “The Importance of Being Framed”, pubblicato nel catalogo delle due mostre di Betty da me curate per il Museo Marino Marini di Firenze e l’ICA di Londra tra il 2015 e il 2016.
La percezione del lavoro di Betty Woodman è cambiata profondamente nel sistema dell’arte in cui viviamo oggi, dove i confini e il vocabolario si sono molto ampliati e dove, finalmente, il carattere prevalentemente formale/gestuale/coloristico della sua pratica non è più letto solo in chiave decorativa ma ha assunto valore, in senso tradizionale, di opera d’arte.
Betty è ora considerata da alcuni, certamente da me, un’artista che ha continuato per decenni a trasformare l’uso della ceramica nell’arte contemporanea e a “superare” i limiti e i pregiudizi sulle divisioni tra pittura, scultura e arti applicate.
Nel corso degli ultimi decenni, ha combinato painted patterns su tela con elementi in ceramica anch’essi dipinti e smaltati, per creare quadri che mescolano illusionismo e tattilità. Molto spesso le tele hanno fatto da sfondo a opere in ceramica e sono state appese alle pareti o semplicemente appoggiate al pavimento. È proprio la tela che, a mio parere, sintetizza un cambiamento dirompente della pratica di Woodman e rappresenta il vero elemento chiave per una lettura – da parte della stessa artista – del suo lavoro in termini non più esclusivamente legati alla sfera del quotidiano ma universali e senza tempo.
La tela, infatti, diventa contesto e “cornice”. La cornice è stata da sempre ritenuta elemento secondario e di contorno, esattamente come secondarie e di contorno sono etichettate le arti decorative e applicate alle quali per anni la produzione di Woodman è stata associata. Le opere di Woodman creano un cortocircuito perché si pongono simultaneamente come pittura e, al tempo stesso, contesto/spazio per un elemento scultoreo – spesso un vaso – realizzato in relazione ad esse e vero centro della composizione. E in un certo senso il “contesto” di un’opera altro non è – se considerato nella sua accezione originaria – la cornice della stessa.
In quanto risultato di un gesto intenzionale con cui l’immagine viene delimitata, separata dal contesto e rinchiusa in un contorno, la cornice-tela della Woodman sottolinea il confine tra lo spazio della rappresentazione (e dunque della figurazione) e quello circostante, costringendo lo sguardo che transita da una regione all’altra a soffermarsi con attenzione di fronte ad un elemento-oggetto-vaso che gli si propone come rappresentazione e messa in scena di cui la cornice stessa fa parte. Intesa come dispositivo di “abbellimento” e “ostentazione” – termini che vanno intesi nell’accezione barocca secondo cui l’artificio e l’abbellimento rappresentano un elemento finalizzato a catalizzare l’attenzione dello spettatore – la tela-cornice eredita tutta la problematicità dello statuto dell’ornamento, sempre sospeso tra l’essenziale e l’accessorio, nella misura in cui conferisce completezza all’immagine-scultura, la legittima, la rende contemplabile, pur rimanendo, per così dire, in secondo piano. La sua condizione è quella di qualcosa che esibisce e mostra ponendosi però come un esterno rispetto all’oggetto esibito, e nel far questo finisce per ricoprire la posizione vagamente ossimorica di una sorta di ornamento necessario.
Potrei andare avanti così, a parlare del lavoro di Betty, e citarne tanti altri aspetti – per esempio l’importanza del vaso, l’utilizzo di un’iconografia che fonde la figura umana con oggetti di uso quotidiano e comune – ma penso che ciò che a Betty interessava di più nella mia lettura del suo lavoro fosse proprio l’aver intuito che lei pensasse di se stessa principalmente come a una pittrice.
E con questo ultimo pensiero voglio salutarla ancora una volta: un abbraccio forte, cara Betty.
Tuo, “screanzato”, Vincenzo.