Nel nostro belpaese Charlie Brooker è conosciuto (poco) praticamente solo per un passaggio del suo show su Channel 4, 10 O’Clock Live, in cui demolisce Berlusconi e l’affaire Ruby (oltre a buona parte della nostra dignità di popolo e paese: http://www.youtube.com/watch?v=VomJjhltTYk, vale la pena darci un’occhiata) in più o meno tre minuti e mezzo. In patria Charlie Brooker è qualcosa di simile al Gesù Cristo del romanzo A volte ritorno di John Niven, se solo Dio si interessasse davvero alla televisione: columnist per The Guardian, ma soprattutto autore, attore e produttore di una serie di programmi televisivi che mettono a ferro e fuoco la televisione. A differenza di Gesù Cristo però Charlie Brooker non conosce la virtù del perdono, ed è un gran bastardo, senza pietà. Tra le sue invenzioni, cose come Screenwipe, Newswipe e Gameswipe, che demoliscono rispettivamente la tv generalista, la copertura giornalistica delle tv news e il mondo della videoludica, la serie How TV Ruined Your Life, che fin dal titolo non ha bisogno di spiegazioni, e una manciata di altri show per cui gli inglesi tutte le mattine possono pregare che God Save anche la BBC e il gruppo di Channel 4 oltre che la Regina (FAQ U, TVGoHome, You Have Been Watching e altre amenità del genere). Per i fanatici della fiction UK, qualche anno fa Brooker si inventa un gioiello come Dead Set (questo, più o meno consapevolmente, trasmesso anche da MTV in Italia), serie horror con un’idea di fondo che sfiora la genialità pura: la Gran Bretagna è invasa dagli zombie, e l’unico luogo sicuro (Romero docet) è… la casa del Big Brother! Naturalmente i morti viventi, attirati ipnoticamente dal grande occhio aperto che è il logo transnazionale del format, finiranno per fare carne digerita anche degli ultimi concorrenti, dopo aver masticato e trasformato pure (la vera) Davina McCall, conduttrice storica della versione britannica. Il tutto girato su un set molto, ma molto simile a quello del Big Brother originale e programmato su E4, il canale giovane e cool del gruppo Channel 4, sul quale è andato in onda regolarmente il reality show.
Aggiungiamo che la società di produzione di Charlie Brooker, la Zeppotron (il riferimento è naturalmente a Zeppo, il quarto sfigato, insieme a Gummo, dei Fratelli Marx, quello che smette di essere un attore potenzialmente miliardario per fare il meccanico) è partecipata da Endemol (l’altra differenza rispetto a Gesù Cristo è che Brooker ha anche il senso degli affari), cioè la società che detiene il format di Big Brother e lo produce in tutto il mondo. Per rendere l’idea: come se un critico indipendente di un quotidiano italiano (e qua siamo alla fantascienza) scrivesse, con i soldi di Endemol, una serie che demolisce il Grande Fratello, mastica e squarcia Alessia Marcuzzi e in più viene trasmessa da La5 o Italia2. Forse la Gran Bretagna è un po’ più in alto nel rating rispetto all’Italia non solo per la Uefa e per l’arte contemporanea (ma su questo ci ritorniamo), ma anche per la produzione televisiva. Tutto questo per dire che quando, a dicembre dell’anno scorso, Charlie Brooker partorisce la sua nuova creatura, Black Mirror, l’attesa è alta. Black Mirror è una serie di tre film tv trasmessi da Channel 4 completamente autonomi per contenuto, interpreti e storia, che hanno come comune denominatore la riflessione critica sui mezzi di comunicazione di massa. Secondo lo stesso Brooker (che se la canta e se la scrive da solo dalle colonne del Guardian), lo “schermo nero” è “quello che possiamo trovare su ogni muro e ogni scrivania, o sul palmo di ogni mano: il freddo, luccicante schermo di una Tv, un monitor o uno smartphone”.
I tre episodi sono diseguali per forza ed efficacia. Il secondo è il racconto di una società del futuro in cui i bravi cittadini magri vivono in cellette di lusso e pedalano tutto il giorno su una cyclette per rimanere in forma e acquistare crediti da spendere per far crescere in coolness i loro avatar digitali (il riferimento è alla Mii di Nintendo e alla Xbox Live di Sony), mentre i grassi puliscono e raccolgono i rifiuti. Tutto ruota intorno a un talent show, Hot Shots, leggi X-Factor, condotto da tre giudici tra cui spicca un favoloso Rupert Everett come parodia hard del guru dei talent Simon Cowell: ancora una volta si fanno inquietanti le somiglianze con il mondo di A volte ritorno di Niven, che mette in scena la degenerazione dell’equivalente USA, American Idol, e del suo guru-demiurgo Simon Fuller, sul quale è disegnato il personaggio di Steven Stelfox.
Il terzo episodio è affascinante come una versione postmoderna di Ai confini della realtà, ma meno pungente: cosa accadrebbe se in un futuro non troppo lontano avessimo la possibilità di registrare e rivedere tutti i nostri ricordi, tradimenti extra-coniugali compresi?
Ma quello che ci interessa davvero è il primo: The National Anthem. Questa la storia: una mattina il Primo Ministro inglese (perfettamente tagliato su David Cameron, per insulsa scempiaggine) viene buttato giù dal letto dal suo staff, perché un video virale sta impazzando nel Regno Unito. È una richiesta di riscatto: un misterioso rapitore tiene in ostaggio la principessa Susannah, e per liberarla chiede che il Primo Ministro, alle quattro del pomeriggio, a rete unificate (network e satellite, cioè BSkyB compresa), compia un atto sessuale completo e consenziente con… un maiale! Good Save Channel 4! Anche se forse non sarebbe altrettanto contenta la Regina: perché se il “Prime Minister Michael Callow” assomiglia a Cameron, non c’è alcun dubbio che la principessa Susannah sia Kate Middleton. E su questo vale la pena di aprire almeno una piccola parentesi sugli usi e consumi della tv britannica, per ricordare che anche nella ripresa della seconda stagione di Sherlock (altra serie con barlumi di genialità, in cui il dinamico duo della fiction UK, Steven Moffat e Mark Gatiss, rileggono il mito fondativo di Conan Doyle adattandolo al contemporaneo), l’aggiornamento della novella A Scandal in Bohemia vede protagonista una Mistress sado-maso, escort di altissimo bordo, che tra i suoi clienti vanta proprio una certa “Kate” esibita fuori campo, membro della famiglia reale, che non disdegna il frustino e il collare (a quando un adattamento di Quel pasticciaccio brutto… di Gadda con le Olgettine al posto delle “nipoti” della signora Balducci?).
The National Anthem è prima di tutto un attacco all’azione pervasiva dei mezzi di comunicazione di massa nella nostra vita quotidiana: una notizia che può distruggere l’equilibrio politico e psichico del paese viaggia incontrollata su YouTube e Twitter (“fuck Internet!” e anche “fuck social network”), una giornalista da broadcast cerca di sfruttare cinicamente la situazione per fare carriera (e costa, ma è uno scherzo, un dito della principessa), e la gente sta incollata di fronte allo schermo ad aspettare questa strana versione del tè delle cinque, ipnotizzata dall’idea di poter guardare in faccia l’orrore al punto di non accorgersi che la principessa è stata liberata, anche prima che il Prime Minister amasse controvoglia un suino a reti unificate.
Quando Brooker scrive, Murdoch e de Mol tremano.
Ma a noi interessa un’altra cosa. In modo quasi subliminale, nei primi minuti della serie, quando tutta l’attenzione dei personaggi e degli spettatori è concentrata sullo scandalo dell’ipervisione (forse Brooker pensava all’incontinenza sessuale dei politici di casa nostra e degli uomini pubblici di casa sua per l’iperbole del sesso animal, e per il parossismo voyeurista dell’opinione pubblica), mentre nessuno se ne accorge, tra una breaking news e l’altra che aggiornano sulla situazione scabrosa, mentre viene chiamato un porno-attore a fare la controfigura con la maiala (femmina) e mentre il premier dà di matto… proprio nei ritagli e negli scampoli di riserva che normalmente vengono concessi alla cultura… insomma, proprio mentre chi guarda (e chi legge adesso) non sta capendo più niente… passa una notizia peregrina, un riempitivo, uno sputo di agenda setting, uno scarto… mentre la Gran Bretagna freme per le sorti della principessa e del Primo Ministro, proprio in quel momento lì…si infiammano le polemiche intorno alla mostra di Carlton Bloom, fresco vincitore del Turner Prize, ospitata dalla Tate Modern!
Cosa? Ma chissenefrega del Turner Prize, della Tate, dell’arte contemporanea quando il Primo Ministro sta per scoparsi un maiale (femmina) in diretta, e la principessa rischia di morire dissanguata? Chi può essere interessato, e distratto, da quello che succede tra i muri di un museo, per colpa di quello che, a quanto sembra, è anche uno stronzo (leggi: Young British Artist)?
Dall’altra parte potrebbero esserci terroristi, jihadisti, potrebbe esserci l’IRA o i neo-nazisti! Eppure… chi è quell’ometto che ogni tanto si vede, tra un delirio e l’altro, vestito come un imbianchino o come un fanatico del bricolage, in una specie di studiolo sporco di vernice e di trucioli? Non è un jidhaista, non è un terrorista dell’IRA, ma un terrorista dell’arte: è lui, Carlton Bloom (riempite i puntini come desiderate), è il vincitore del Turner Prize.
È tutta colpa sua: è lui il rapitore. Non ha mai tagliato un dito a Susannah/Kate (se l’è tagliato da solo), e tutto questo casino era soltanto una performance. Sì: il vincitore del Turner Prize ha fatto finta di rapire la principessa e ha fatto finta di ricattare il Primo Ministro soltanto per mettere in scena una performance di arte contemporanea. Forse non ci credeva abbastanza, forse ha avuto paura: dopo aver rilasciato la principessa (in anticipo) e assistito allo scempio del coito istituzional-animale, si è impiccato nel suo studio. L’arte ha perso, l’arte è morta. L’episodio finisce cosi: con Susannah/Kate ripresa bellissima e magra (con un gran culo, meglio di sua sorella) durante un’uscita pubblica, il Primo Ministro disprezzato dalla moglie. E le polemiche. Tante polemiche. Perché un critico d’arte ha dichiarato che la performance di Bloom è la più grande opera d’arte della contemporaneità.
Sentite l’eco? Damien Hirst, a proposito dell’11 settembre: “The thing about 9/11 is that it’s kind of an artwork in its own right. It was wicked, but it was devised in this way for this kind of impact. It was devised visually”. Qualcuno già aveva detto, durante l’episodio che “questo è il nostro 11 settembre”. In fondo lo studio artigianale di Bloom è soltanto un’ottava più in basso della factory artigianale di Hirst: se il secondo non tocca un pennello, il primo li tocca tutti, se il secondo non si sporca mai e non ha rimpianti, il primo è fradicio di vernice, sangue e colpa. Ricapitoliamo: il più grande sconvolgimento della Gran Bretagna contemporanea è colpa di un artista, del vincitore del Turner Prize. Ne parlano le televisioni e i giornali (a scanso di equivoci: The Guardian, il quotidiano di Brooker, è partner mediatico del Turner Prize), ne parla la gente, quelli ipnotizzati dal tè delle quattro col maiale.
Tralasciamo le questioni di merito (comunque sì: io, Hirst, Baudrillard e Karlheinz Stockhausen siamo abbastanza d’accordo sul fatto che 9/11 sia il più grande evento/performance del millennio) e arriviamo al punto.
Black Mirror dice due cose.
La prima: l’arte contemporanea segna la realtà. (Lacan direbbe: segna il reale). L’arte contemporanea può determinare la vita della società di massa e non soltanto quella della nostra accolita onanista. Il lavoro dell’artista trasforma la verità sociale e può metterla in ginocchio. Può crearla, determinarla, indurla. L’arte contemporanea può piegare la realtà fino a farla diventare un’opera d’arte. Il responsabile, il colpevole, e quindi il creatore assoluto, è quello stronzo di Carlton Bloom, un artista, vincitore del Turner Prize. Se fosse Damien Hirst non si sarebbe suicidato.
La seconda: l’arte contemporanea è un mezzo di comunicazione di massa. Esattamente al pari della televisione e dei social network. Né di più, né di meno: funziona esattamente nello stesso modo. Ha la stessa forza e la stessa fondamentale ipocrisia, sfrutta ed è equanimemente fruttata dal circuito economico. Non c’è nessuna differenza tra YouTube e il Turner Prize.
L’arte contemporanea è una forza del sistema socio-culturale contemporaneo, in grado di determinare la società e la realtà (fino a distruggerla), e insieme è un frutto del puro interesse economico (fino a esserne distrutta, e suicidata).
Entrambe le affermazioni sono assolutamente corrette.
God Save Charlie Brooker, and the Turner Prize, and Damien Hirst. And TV.