In Dove comincia il buio (2011), tra i primissimi lavori di Giulia Cenci (Cortona, 1988; vive ad Amsterdam), il buio prende consistenza grazie a un alone luminoso emesso da una lampada parzialmente murata. Il semplice atto di circoscrivere una minima frazione di spazio permette il manifestarsi di un’altra area, più ampia e prima invisibile. L’artista cattura quell’impercettibile momento in cui la luce apparentemente si disgrega, ma nello stesso tempo genera e rende percepibile qualcosa di nuovo, in questo caso il buio che assume una fisicità quasi scultorea. Si riescono così a trattenere forme transitorie come ombre e luci che, attraversando lo spazio, appaiono sempre diverse nel corso di una giornata.
Ciò che affascina Cenci è come la pratica artistica abbia la capacità di dare fisicità a ciò che non si riesce a trattenere: i momenti di compresenza di luce e buio, ma anche l’idea di perdita improvvisa, il processo di deterioramento delle cose, così come la velocità con cui svaniscono i ricordi.
Una delle citazioni che ricorre più di frequente nelle interviste e nei testi che introducono le sue mostre e le sue opere riguarda la nascita della scultura come necessità di colmare un’assenza:
Il vasaio Butade Sicionio scoprì per primo l’arte di modellare i ritratti in argilla; ciò avveniva a Corinto ed egli dovette la sua invenzione a sua figlia, innamorata di un giovane. Poiché quest’ultimo doveva partire per l’estero, essa tratteggiò con una linea l’ombra del suo volto proiettata sul muro dal lume di una lanterna; su quelle linee il padre impresse l’argilla riproducendone il volto; fattolo seccare con il resto del suo vasellame lo mise a cuocere in forno.
Secondo Plinio il Vecchio l’inizio della rappresentazione scultorea coincide con l’azione di un vasaio che circoscrive la forma di un volto: ne segna il profilo con l’argilla ed infine lo reimmette nel mondo sotto forma di un oggetto-figura nuovamente presente e riconoscibile.
La transitorietà di tutto ciò che abita la Terra incontra l’incessante desiderio di conservare e rendere nuovamente visibile ciò che ormai è trascorso. E, nei secoli, la scultura è diventata uno degli strumenti scelti dall’essere umano proprio per resistere al tempo e alla sua azione incessante.
Dal 2014, Cenci ha iniziato a lavorare con la scultura. Se le installazioni site-specific caratterizzavano la produzione artistica degli anni trascorsi all’Accademia di Belle Arti di Bologna, nel 2013 l’artista si trasferisce alla St. Joost Academy di Den Bosch-Breda, dove inizia a confrontarsi con quello che definisce “lo spazio vuoto del mio studio”, immaginando di fare scultura a partire dalla sedia, dal tavolo, dal secchio, dal lavabo e dalla vasca in cui quotidianamente lava le mani sporche di argilla e di ceneri di ossa e di marmo, e sui quali esegue i suoi primi esperimenti con le resine.
È così che lo studio ha iniziato a essere la palestra in cui esercitare una ricerca sulla presenza del proprio corpo nello spazio, utilizzando la scultura proprio per la sua capacità di lasciare sui materiali l’impronta del demiurgo; una procedura apparentemente impossibile su quella sovrabbondanza di utensili, contenitori e pellicole plastiche che ogni giorno rimangono uguali nonostante l’utilizzo che ne viene fatto.
Attraverso due diversi approcci Cenci ha rimaneggiato questi oggetti quotidiani, quelli dello studio e successivamente i rifiuti di macchinari trovati nelle discariche di Amsterdam, rendendoli più precari e fragili, accelerandone l’usura o rimodellandone parzialmente l’aspetto.
La mostra “La terra bassa” presentata nel 2014 dalla galleria SpazioA di Pistoia, si configurava come un paesaggio di oggetti il cui orizzonte non superava l’altezza del bacino di una persona; qui Almost Invisible #5 (2014), una sedia, e Almost invisible #4 (2014), un tavolo, entrambi in plastica, apparivano come levigati fino all’estremo della loro materialità, come ad accelerarne il consueto utilizzo e il conseguente logoramento. In un altro punto della galleria si trovava un gruppo di secchi formato da tre elementi Ritratto basso #3 (2014), Ritratto basso #4 (2014) e Autoritratto basso (2014). Realizzati attraverso una serie di colate in resina mescolata con polvere di marmo, queste sculture nascono dall’ibridazione di oggetti veri e oggetti modellati. Cenci ricopre parzialmente il secchio di plastica con uno strato di argilla in modo tale che, durante la colatura, la resina assuma una consistenza di oggetto modificato, attraversato da materia in eccedenza, la stessa che ogni giorno si deposita sul fondo del secchio nello studio dell’artista. Come suggeriscono i titoli di queste opere, i secchi sono come ritratti di persone e autoritratti dell’artista; sottolineano la capacità degli oggetti di resistere all’uomo contenendolo e trattenendone le parti che andrebbero perdute. I residui quotidiani abitualmente sciacquati via, qui vengono ricomposti grazie all’azione dell’argilla, della resina e delle polveri.
Sempre nel 2014, Cenci presenta la mostra “Mai”, presso Tile Project Space a Milano, in cui la produzione è sempre più focalizzata sulla resa scultorea della superficie utilizzando i medesimi soggetti della mostra precedente. Qui, però, la loro superficie è incompleta, le strutture prima in grado di sostenersi autonomamente sono ora appoggiate a un muro o mancano anche visivamente della loro precedente funzionalità, come lo sgabello (Almost Invisible #7 [2014]) e la sedia (Almost Invisible #8 [2014]) ridotti a uno scheletro in plastica. Le colate consistenti e spesse della serie di Ritratto basso vengono abbandonate in favore di superfici trasparenti, frammentate, in cui l’utilizzo dell’argilla serve solo per arginare la colata della resina, che in Ritratto perso (2014), invece, avviene direttamente sul contenitore che fa da negativo. In questo ciclo di opere l’artista ricostruisce la natura dell’oggetto facendola coincidere con la sostanza – un liquido, nel caso di recipienti come bacinelle e vasche – che abitualmente contiene. Ciò avviene non tanto per mostrare la funzionalità dell’oggetto ma per trattenere, attraverso un lento processo di sovrapposizione di strati di resina, quel momentaneo passaggio di materia che avviene al suo interno.
Cenci costruisce qualcosa di estremamente organico, mutabile e provvisorio, in sostituzione proprio di quei contenitori plastici di cui esistono infinite riproduzioni, poiché frutto di stampi industriali. La scultura in questo senso serve per affermare la presenza dell’artista di fronte all’ambiente artificiale in cui quotidianamente vive, modificandolo e inserendolo nello stesso ritmo del tempo a cui è soggetto un corpo umano.
L’indagine sulla superficie si è più recentemente tradotta in una ricerca sulla forma come il momento residuale del gioco di energie in atto nella produzione scultorea. In Aprile5055 (2017) cavi e pezzi interni di macchinari e di automobili sono assemblati ricostruendo la tensione propria di un corpo umano. Come tendini di un muscolo, arti distesi e sotto sforzo, queste parti vengono unite, allungando e distorcendo la loro forma iniziale. Le sculture sono ricoperte in parte da una pelle sottile con una sua complessità interna, formata dalle piccole parti filamentose.
La stessa tipologia di vitalità inerziale caratterizza altri lavori frutto della residenza dell’artista al De Ateliers di Amsterdam: Bianco sudato (2017) è un’installazione complessa composta da porzioni di macchine e oggetti, i cui calchi ricoperti da una gomma che ne altera la forma consueta, appaiono all’interno sventrati. Ibridando la forma preesistente dell’oggetto con volumi riconducibili a masse organiche, Cenci inserisce i lavori all’interno di un processo in cui è possibile osservarli come micro-mondi semi vivi. La sensazione di vitalità è alimentata dalla presenza di alcuni frutti, anch’essi ricoperti di silicone, che marcendo e collassando su loro stessi evidenziano come già in natura le superfici, i colori e le consistenze della materia subiscano un mutamento, qui però filtrato dalla presenza dell’elemento plastico.
Entrambi i gruppi di opere, pur mostrandosi in uno stato di decadimento, tradiscono l’esasperazione del gesto scultoreo del calco che, nella sua azione ripetuta, li inserisce in un particolare flusso di energia. Diversa da un semplice vitalismo naturale, è una forza entropica che attraversa questi oggetti come un movimento caotico tipico di quei complessi ibridi di materia che, in cerca di un equilibrio, tardano a riconoscere un proprio ritmo interno.
Quest’incessante metamorfosi mostra le potenzialità formali delle superfici, delle pelli sottili che delimitano il proliferare di relazioni tra le parti microscopiche di meccanismi artificiali, così come quelle di un corpo che, apparentemente stabile, nasconde un moto disordinato di molecole.