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3 Luglio 2017, 6:45 pm CET

Bruce Nauman di Luigi Fassi

di Luigi Fassi 3 Luglio 2017
Failing to Levitate in the Studio (1966). Collezione dell’artista. Fotografia di Bruce Nauman.
Failing to Levitate in the Studio (1966). Collezione dell’artista. Fotografia di Bruce Nauman.
Failing to Levitate in the Studio (1966). Collezione dell’artista. Fotografia di Bruce Nauman.

Lontana dalla volontà totalizzante di una retrospettiva, “Una rosa non ha denti. Bruce Nauman negli anni Sessanta” è una raffinata mostra a tesi organizzata dalla University of California di Berkeley, volta a rivelare la centralità e l’importanza degli anni giovanili californiani nella germinazione del lavoro artistico di Bruce Nauman.

Tutti i lavori esposti testimoniano l’intuizione fondativa concepita da Nauman tra il ’65 e il ’69, lo slittamento dall’interesse per l’opera in sé a quello verso la processualità e le dinamiche generative della stessa. Diventa così chiara la relazione tra l’iniziale formazione matematico-filosofica dell’artista e le sue successive modalità creative, improntate a una continua disamina teorica di forme, oggetti e funzionalità.

L’esposizione è disseminata di lavori mai visti in Italia, tra cui alcuni inediti anche negli Stati Uniti, esito di una lunghissima ricerca compiuta dalla curatrice Constance M. Lewallen sugli esordi dell’artista. Esemplare in questo senso è The Slant Step, oggetto misterioso e incomprensibile, simile a uno scalino, scovato da Nauman nel 1966 presso un rigattiere e costantemente rielaborato negli anni. L’impossibilità funzionale di questo oggetto assurge per l’artista a motore concettuale di una molteplicità di lavori successivi, incentrati sullo studio delle strategie concettuali che sottostanno alla riconoscibilità di forme e oggetti comuni. Nauman mette costantemente in crisi l’ipotesi di un’accettazione aproblematica del reale e di una sua comprensione diretta, privilegiando invece visioni oblique e dissonanze, come nell’autoritratto Neon Templates of the Left Half of My Body Taken at Ten-Inch Intervals (1966), o nei numerosi calchi in vetroresina e cemento che negano letteralmente ogni “buona forma” e stabilità percettiva, tra cui A Cast of the Space Under My Chair (1965-68).

Lo scacco evidente a cui Nauman costringe i principi classici della Gestalt fa riemergere l’efficacia dell’argomentazione di Rosalind Krauss ne L’informe, quando la critica americana definisce l’opera di Nauman “un congelamento di paradigmi”, destinato a interrompere la comune attribuzione di senso al reale e smembrando al tempo stesso le certezze formali del coevo Minimalismo americano. Ci sarebbe così un’entropia di fondo nell’opera di Nauman, una sorta di sguardo estremo capace di allontanarsi dai percorsi conoscitivi tradizionali per immergersi in un contesto gnoseologicamente altro, fatto di tentativi e sperimentazioni, dove l’interesse formale si accompagna a una partecipazione esistenziale per la dimensione di finitezza e di decadimento propria di tutte le cose.

All’interno di tale percorso, la stessa identità fisica e psichica dell’artista viene messa in questione, in una sorta di sospensione temporanea che annulla l’individualità consueta, come evidenziato dalla proiezione multipla Art Make-Up (1967-68), dove Nauman, in quattro segmenti filmici di 10 minuti ciascuno, si ricopre silenziosamente di strati successivi di diversi colori, mutando letteralmente pelle e riconoscibilità di fronte agli occhi dello spettatore.

Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli (TO).

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