Nauman ci pone di fronte a un problema non da poco: la sua volontà di non parlare del lavoro, il non aver mai contribuito al discorso critico nonostante abbia fatto del linguaggio l’elemento cardine della sua opera. Quindi tutto rimane in una sorta di limbo in cui le stesse parole che l’artista ci sottopone, i punti fermi estetici paiono restare del tutto misteriosi e senza indizi di assimilazione. Il risultato è tutto da ricavare, attraverso lo studio, la partecipazione attiva alla sua routine complessa e articolata. Nella mostra al MADRE, “Make Me Think Me”, curata da Laurence Sillars, presentata lo scorso maggio alla Tate Liverpool e poi riadattata per gli spazi del museo napoletano, sono presenti cinquanta lavori, tra sculture, neon, video, performance e disegni, eseguiti tra il 1966 e il 2005. Il corpus dell’esposizione si concentra in particolare sull’interesse di Nauman per la potenzialità e la manipolazione del linguaggio attraverso i giochi di parole e la ripetizione, sottolineando la sua attenzione verso le forme di controllo e sulle possibili reazioni dello spettatore alle sollecitazioni ambientali da lui create, nonché sull’attenzione dell’artista nell’uso e nelle potenzialità del corpo all’interno della società tecnologica contemporanea.
Bruce Nauman parte da un concetto: l’arte inizia dove la parola non riesce più a essere funzionale, ad avere possibilità esplicative. E quindi la parola diviene vittima di se stessa, passiva spettatrice di infinite possibilità di alterazione del suo significato. Spostare una lettera cambia il senso di ogni cosa, riportarla al suo ordine iniziale e poi ritornare allo spostamento può anche annullare il senso di ciò che si è voluto affermare. Nauman analizza la condizione dell’essere umano, la sua eterna insicurezza e il grado di variabilità del significato degli eventi a seconda dell’angolazione da cui li si osserva. Un bilico mentale continuo, ossessivo, dove la sperimentazione è la possibilità unica per un’eventuale via d’uscita o radicale presa di coscienza di una condizione definitiva.
Il percorso espositivo si snoda fra opere più o meno celebri: Eating My Words del 1970, una serie di fotografie in cui le parole pronunciate vengono letteralmente rimangiate abolendo la valenza metaforica della frase. Ancora fotografia con Study for Holograms del 1970, la straniante installazione Going Around the Corner Piece with Live and Taped Monitors, sempre del 1970, “Eleven Color Photographs” (1966, 1967, 1970), Good Boy/Bad Boy (1985), fino alla performance video Slow Angle Walk (Beckett Walk) del 1970, punto poetico fra i più incisivi della mostra. La citazione a Samuel Beckett non è casuale nel lavoro di Nauman, ma è una presenza che lo spinge alla sperimentazione pura, alla capacità di trarre dalle formule fisiche più semplici i teoremi più complessi. L’impostazione teatrale di alcuni lavori esplicitamente legati alla tradizione del mimo corporeo come Shit in Your Hat-Head on the Chair (1990) sottolineano la capacità di Nauman di muoversi dietro il suo lavoro con le modalità del regista che dalla platea deserta dirige i suoi attori-corpi-parole. Tutto riporta — il suo studio del corpo nello spazio, la necessità di non commettere errori nella ripetizione dello stesso gesto per tutto il tempo di durata del nastro — al fatto che alla University of Wisconsin (USA) studiò anche matematica e fisica, senza però diventare mai un matematico ma rimanendo per sempre un illustre scienziato del linguaggio, dell’analisi, del tentativo, della sperimentazione.