Arianna Rosica: Quando hai cominciato a collezionare? E come è nata la tua collezione?
Carlo Traglio: Ho cominciato a collezionare giovanissimo, intorno ai sedici anni. Risparmiavo, chiedevo soldi in prestito, pagando anche le opere a rate. Ero molto attratto dal mondo dell’arte, un mondo che ritengo trasversale alla gioielleria. Quando chiesi a mio padre mille dollari per comprare un disegno di David Hockney mi rispose di no, perché gli sembrava una follia. Ma io l’ho comprato lo stesso.
AR: Come hai scoperto Hockney?
CT: Nei musei. Ero un ragazzo un po’ fuori dagli schemi, invece di giocare andavo alle mostre. Ho scoperto Hockney la prima volta in una mostra alla Royal Academy di Londra; poi ho avuto la fortuna di incontrarlo a Los Angeles. È un uomo intelligente e molto affascinante: guarda con attenzione la persona con la quale conversa. C’è un rapporto “visivo”. È un artista che ha studiato la pittura, conosce i fiamminghi e la luce meglio di qualsiasi altro pittore vivente. Dopo Hockney il collezionismo è diventato per me una malattia seria, incurabile. Nel corso di questa malattia ho attraversato varie fasi: da ragazzino guardavo molto al Novecento, soprattutto per la grafica; da lì ho cominciato a interessarmi al contemporaneo, poi a qualsiasi cosa. La mia, più che una collezione, è una “raccolta” di opere.
AR: Nella tua collezione cerchi dunque di “mischiare” tutto? Oppure segui un filo conduttore?
CT: Cerco di mettere insieme opere diverse fra loro. All’interno di questo spazio (il Loft Vhernier in corso di Porta Nuova a Milano) ho inserito opere poco ingombranti e poco delicate, perché è un luogo pubblico. La mia collezione parte da dipinti del Cinquecento e arriva fino al contemporaneo. Sono molto interessato ai giovani, vado spesso nei loro studi.
AR: In che modo entri in contatto con gli artisti? Di solito cerchi di incontrarli?
CT: Solitamente mi rivolgo alla galleria. Mi capita spesso di incontrare gli artisti: a volte conoscerli è piacevole, altre volte l’incontro è deludente. Forse perché sono poco inclini a socializzare, oppure il contrario. L’incontro con Julian Schnabel è stato il più divertente.
AR: Forse perché, essendo anche un regista, è più abituato al contatto con il pubblico…
CT: L’ho conosciuto prima che diventasse regista. Schnabel è molto espansivo, capace di coinvolgerti con la sua energia e con la sua forza. Quando sono andato a trovarlo nel suo studio a Tribeca, mi ha addirittura chiesto di aiutarlo a spostare un quadro. Si trattava di un’opera enorme, ma lui ha una forza fisica straordinaria! Certi artisti è meglio non conoscerli: preferisco rimanere affascinato dalle loro opere piuttosto che andare a scavare nella loro personalità.
AR: E gli artisti italiani?
CT: Li amo molto. I giovani mi “turbano”. Mi piacciono artisti come Flavio Favelli, Nico Vascellari, Enrico David: artisti dell’oggi. Gli established mi interessano di meno. Di Favelli ho comprato tre anni fa per il Loft Vhernier un’installazione site specific. Vorrei che questa che io chiamo “raccolta” avesse, tra cinque, dieci anni, un significato preciso: di aver vissuto con il mio tempo.
AR: Come fai a scegliere tra i giovani artisti? Hai un consulente, segui le riviste, oppure attraverso le gallerie?
CT: Attraverso le gallerie, le riviste specializzate, tra cui Flash Art e le aste. Non dimentichiamo lo scambio tra i collezionisti. Anche il Premio dell’associazione ACACIA, di cui sono vice-presidente, è un’occasione per conoscere i giovani artisti, sotto la guida di Gemma Testa. In questo modo riesco sempre ad avere nuovi stimoli e impulsi. Un artista deve prendermi allo stomaco, le mode mi lasciano abbastanza indifferente e quando mi innamoro “è fatta”.
AR: Hai una collezione molto varia. Quale è il medium che preferisci?
CT: Nessuno in particolare. Compro quello che mi piace. Amo la pittura, la scultura, il video. La pittura forse è quella che preferisco, perché è nel DNA italiano. In collezione ho uno dei rarissimi dipinti di Vanessa Beecroft. Il problema è che alla fine non so dove mettere tutte queste opere!
AR: Dove conservi la tua collezione? A casa o in azienda?
CT: Ovunque. Cerco di renderla visibile il più possibile, di farla girare. In alcuni casi, le mie opere sono ospitate nei musei e nelle mostre.
AR: Qual è l’artista italiano che ami di più?
CT: Mario Della Vedova, Loris Cecchini e in questo momento Davide Dormino, un esordiente di Roma con grandi potenzialità. Tra gli storici invece Luigi Mainolfi e Franco Guerzoni, oppure i fotografi, da Mario Cresci a Franco Fontana.
AR: Come si colloca Vhernier come azienda nel mondo dell’arte?
CT: Recentemente alcuni artisti mi hanno chiesto di realizzare opere in oro. Si rivolgono a Vhernier perché percepiscono una sensibilità molto affine. È un’operazione delicata: i gioielli realizzati da artisti che ho visto fino a ora però spesso sono deludenti.
AR: Non credi che gli artisti vadano guidati e magari proprio le aziende potrebbero aiutarli?
CT: Certo. Recentemente, per esempio, abbiamo realizzato una medaglia per l’American Academy disegnata da Cy Twombly che è stata poi rivista e corretta perché si adattasse a un vero oggetto di alta oreficeria.
AR: All’interno del Loft Vhernier organizzate degli eventi che interessano solo la vostra azienda, o anche mostre di vario tipo?
CT: Il Loft Vhernier è uno spazio che si presta a molteplici usi. Ospita spesso mostre ed eventi legati al mondo dell’arte. Recentemente abbiamo organizzato un’asta di fotografia e installazioni site specific. Il Loft è inoltre una delle sedi di ACACIA, che qui riunisce i suoi soci.
AR: Oltre alle collaborazioni con artisti, sponsorizzate anche progetti?
CT: Pochi mesi fa abbiamo sponsorizzato il progetto di Velasco Vitali a Palazzo Reale a Milano. Non sapevamo se presentarlo negli Stati Uniti o a Milano, città che alla fine abbiamo scelto. Per noi è importante dare un contributo al mondo dell’arte italiana, ai giovani emergenti, ad artisti poco seguiti o sottovalutati. Stiamo anche pensando a un’attività di tutoraggio. Vorremmo coinvolgere un curatore capace e attento ai giovani, come Milovan Farronato, che si occupi di loro e li aiuti a emergere in Italia e all’estero. Vogliamo aiutare gli artisti ad affermarsi, anche perché non esistono in Italia istituzioni che lo fanno.
AR: Secondo te, perché in Italia non esistono questo genere di istituzioni?
CT: È un problema che c’è da sempre: siamo talmente ricchi d’arte (spesso non svelata, i musei sono pieni di opere che non verranno mai alla luce) che alla fine non si è creata un’esigenza reale per promuoverla. L’arte contemporanea in Italia fa fatica ad emergere perché non esiste un sistema coordinato tra gallerie e musei. L’Italia, più di qualsiasi altro paese, soffre di una fortuna-sfortuna: fortuna per le bellezze del passato, ma sfortuna per l’arte contemporanea. Non ci sono solo Caravaggio e Canaletto.
AR: Perché Milano, la città più internazionale d’Italia, con mille stimoli, dal Salone del Mobile alla moda, non ha un Museo di arte contemporanea?
CT: Una vecchia diatriba. Non c’è stata fino a poco tempo fa una vera strategia da parte delle Istituzioni per promuoverlo e sostenerlo. Il nostro Sindaco Letizia Moratti e l’Assessore alla Cultura Finazzer Flory stanno cercando con i pochi mezzi a loro disposizione di trovare una definitiva e prestigiosa collocazione per l’arte contemporanea. Si è anche parlato dell’Arengario 2, che a me piacerebbe molto.
AR: In Italia non esiste una sinergia tra i galleristi…
CT: Certo. All’estero invece non è così. In Italia ci sono galleristi, come per esempio Massimo Minini, che fa un lavoro straordinario, dialoga con i musei di tutto il mondo, ma resta confinato nella sua isola di Brescia. Manca un sistema dell’arte che crei sinergie tra i diversi attori, come avviene a New York e a Londra. In Cina si sta sviluppando una vera e propria lobby.
AR: Non credi che, in Italia, Torino sia stata l’unica città a cercare di costituire un “sistema”?
CT: Torino ci ha provato ed è quasi riuscita a “fare sistema”. È sempre stata “avanti” rispetto alle altre città, ha una collezione meravigliosa, come quella della Sandretto Re Rebaudengo, il Castello di Rivoli (uno dei migliori musei in Italia insieme al Mart di Rovereto e oggi il MAXXI a Roma) la GAM; musei con grandi direttori che hanno “sudato” per creare una collezione permanente, tanto da poter dialogare con i musei più importanti di tutto il mondo.
AR: Non pensi che ci sia anche un altro problema, tutto italiano, ovvero che siamo tutti esterofili? Questo penalizza gli artisti italiani, che possono farsi notare all’estero solo grazie alle residenze… In Italia ci sono molti artisti di qualità che però all’estero sono completamente sconosciuti.
CT: Io credo che tutti gli artisti che vogliono diventare tali devono passare per l’Italia. Molti stranieri vengono proprio nel nostro paese a formarsi. I nostri artisti, purtroppo, non hanno numerose opportunità di farsi notare all’estero. Non c’è interscambio. In passato ci sono stati dei fenomeni, come per esempio la Transavanguardia, che ha visto un gruppo di italiani a New York diventare delle star. Sono capitati nel posto giusto al momento giusto. In un momento di vuoto. Ed erano anche molto bravi!
AR: Il sistema italiano però non è riuscito a sostenerli. All’inizio degli anni Novanta, quando sono arrivate le nuove generazioni, gli artisti della Transavanguardia sono stati un po’ accantonati…
CT: Insisto nel dire che non c’è un “sistema Italia” per l’arte contemporanea. Non c’è una mente pensante capace di organizzare questo sistema, di gestire gli artisti. Gli artisti solitamente fanno il primo vagito a Berlino; qui magari sono notati da qualcuno e se hanno fortuna vanno a Londra, e poi da Londra a New York. I nostri artisti migliori, come per esempio Enrico David, Flavio Favelli, Nico Vascellari diventano artisti all’estero e spesso lo fanno in età già adulta. Se trasferissimo questi artisti a New York e se li affidassimo al sistema, costituito da grandi critici, grandi musei e grandi gallerie, giurerei che anche loro, come i grandi della Transavanguardia, diventerebbero subito delle star.
AR: Un altro problema credo consista nel fatto che i musei non acquistino opere, cosa che invece avviene all’estero. Anche in Italia questo potrebbe essere possibile, ma molto spesso è proprio la gestione interna del museo che lo impedisce. Spesso — è il caso del MAXXI — le opere vengono acquisite in base a un gusto personale, che non racconta la vera storia dell’arte italiana…
CT: I musei americani invece hanno messo a punto un sistema di finanziamento per cui hanno le casse sempre piene e le loro mostre fanno il pieno di visitatori. Inoltre, spesso scelgono di comprare gli emergenti, pagandoli poco: è questo il sistema che funziona. In Italia si fa fatica anche a tenere in piedi i musei storici. I musei all’estero vivono anche di bookshop e didattica, che in Italia mancano. La scuola potrebbe essere lo stimolo per sviluppare una nuova concezione dell’arte, per educare le nuove generazioni al contemporaneo. La scuola dovrebbe essere uno dei principali motori capaci di far muovere questo Paese, che è popolato da persone estremamente valide.
AR: Compri molto alle aste? E alle fiere?
CT: Le aste possono essere interessanti nel momento in cui esiste un’evidente difficoltà a reperire un’opera. Le fiere mi interessavano in passato, ora di meno. Non mi piace tutto quello che c’è intorno alle fiere, sono diventate commodity dell’arte.
AR: L’ultima opera che hai acquistato?
CT: Un’opera di Eva Marisaldi, finalmente, e una fotografia di Richard Avedon. La fotografia mi piace, ma, come dicevo, la cosa più importante è che un’opera tocchi le mie corde.
AR: Ritieni Avedon un fotografo o un artista? Molti fotografi si lamentano del fatto che non sono considerati degli artisti…
CT: Avedon fa parte di un’altra generazione, di una generazione di grandi fotografi.
AR: Pensi che questo momento di crisi abbia influito sul mondo dell’arte?
CT: Il mondo dell’arte resta un importante punto di riferimento. Credo che nei momenti di crisi le persone si rifugino nell’arte. Sono soprattutto i giovani a essere stimolati e a vendere.
AR: Non hai mai pensato di costituire una fondazione?
CT: No, non è una cosa che sento mia. La fondazione è un’attività che impegna a tempo pieno. Servono molte energie.
AR: Oggi sono molti i musei che organizzano mostre con le opere di una collezione privata. Hai mai “prestato” la tua collezione a un museo?
CT: Finora no, ma sarei pronto a farlo. L’associazione ACACIA ha organizzato eventi durante i quali i collezionisti aprivano le proprie case per mostrare le collezioni, ma non è cosa facile da realizzare. Servirebbero inoltre dei curatori in grado di organizzare le mostre. In Italia ci sono ottimi curatori, ma credo non siano opportunamente sollecitati.
AR: Progetti per il futuro?
CT: Il mio obiettivo è puntare sui giovani e cercare di supportarli. Ovvero continuare a fare quello che sto facendo adesso.