Attilia Fattori Franchini: La tua pratica è caratterizzata da un approccio ibrido e associativo, che ti vede mescolare il ruolo di artista, performer, scrittrice di racconti erotici e musicista. Al tempo stesso ognuno di questi linguaggi e registri informa l’altro, contaminando e fornendo spunti per nuove sperimentazioni. Puoi raccontare l’evoluzione di questi ruoli?
Caterina De Nicola: Solitamente combino progetti e attività differenti lavorando su più cose in modo piuttosto poliedrico, questo anche perché sono una persona che si annoia facilmente. Ho sempre avuto una concentrazione paragonabile a quella di un Labrador.
Quello che caratterizza la mia ricerca consiste nel fatto che tutte queste pratiche non si incontrano necessariamente ma sopravvivono in autonomia, posizionandosi parallelamente. Ho da sempre suonato diversi strumenti musicali, passando da uno all’altro senza approfondirne gli studi e la tecnica – solo per curiosità. Anche le scene musicali underground e di provincia hanno avuto un’influenza in questo contesto, permettendomi di essere parte di più progetti e gruppi senza dover necessariamente fare delle scelte vincolanti.
Penso anche che la mia formazione ibrida abbia avuto un impatto a riguardo. Dai miei studi di decorazione all’Accademia di Belle Arti di Brera, scelta che ho faticato a giustificare e che non nascondo di aver rinnegato per molto tempo, al focus su grafica e design all’Ecal di Losanna, uno scontro sia a livello di stimoli che per la dimensione provinciale della città.
AFF: A cosa stai lavorando in questo momento?
CDN: Da quasi un anno sto lavorando ad un progetto composto da una serie di elementi ottenuti per addizioni di testi, ricerche, immagini, input esterni e campionamenti.
Il progetto si intitola Le Sofa e tutti i suoi potenziali sviluppi non sono necessariamente legati fra loro. Il primo elemento del progetto è un EP, che vorrei pubblicare dopo l’estate, nato da uno scambio di idee avuto con Riccardo Balli di Sonic Belligeranza, un’etichetta indipendente di musica elettronica nata a Bologna negli anni 2000. Attraverso un approccio speculativo e immaginario, il prodotto sonoro problematizza come certe influenze estetiche generino meccanismi sociali, politici ed economici influenzando la nostra opinione e gusto. La mia produzione musicale prende spunto da sottogeneri della musica Noise, quali Speed-core e Shit-core, caratterizzati da una ritmica molto veloce e violenta, spingendo l’estetica no-fi alla sua estensione più assurda ed estrema. Le influenze musicali diventano cosí aggettivi per descrivere un aspetto della produzione, ad esempio una registrazione ed esecuzione di brani molto lo-fi, o messaggi nella musica che si basano su riferimenti gore, porno e contenuti disturbanti del w-eb. Secondo diversi aspetti lo Shitcore si trova in un mondo tutto suo, proprio come il post-post postmodernismo (o performatismo), semplicemente perché esiste al di fuori della normale percezione del rumore, creando un genere trascendente che è per certi versi al di sopra della dicotomia tra musica e rumore.
La produzione del disco verrà affiancata da testi e racconti che in un intreccio di theory-fiction e speculative horror, generano un racconto tra horror estremo, genere erotico e gore. Questo racconto è ispirato alla novella libertina Le Sopha, Conte Moral del 1742, dello scrittore francese Claude Prosper Jolyot de Crébillon. Le Sopha narra le vicende del giovane cortigiano Amanzéï, la cui anima viene condannata ad abitare un divano. Le varie tracce dell’EP racconteranno le esperienze erotiche consumate sul divano in cui è stato trasformato Amanzéï.
Durante la residenza da Cripta747, Torino (2020) ho iniziato a lavorare a un soundsystem composto da una serie di divani/speaker. I divani hanno diversi aspetti e sedute e la loro forma è ispirata ai divani artigianali fatti su misura: prevedono un telaio nudo parzialmente coperto con tappezzeria e imbottitura che possa dare l’impressione di spogliarsi. Queste forme ospitano sulla loro superficie degli eccitatori sonori, usati come un altoparlante, che diffondono l’audio trasformando l’oggetto su cui sono montati in una cassa di risonanza come quella di una chitarra, trasmettendo il suono attraverso la loro superficie. Sto anche portando avanti dei nuovi progetti, che non mi vedono come protagonista, con il collettivo e label musicale Czarnagora, di Zurigo.
AFF: Czarnagora è un collettivo sonoro con cui collabori come produttrice e dj, attivo nella scena di Zurigo e principalmente affiliato a squat e forme di organizzazione sociale indipendente. Pensi al lavoro di Czarnagora come uno strumento politico?
CDN: È una domanda difficile questa, proprio a causa delle modalità con le quali il collettivo ha preso forma. Con Czarnagora solitamente le cose succedono e basta, non è un’entità omogenea. Ognuno è coinvolto a modo suo, e ogni situazione è unica. Czarnagora è nato durante il primo lockdown all’interno dello squat Juch-Areal, dove alcuni di noi hanno vissuto fino al momento in cui è stato sgomberato dalla polizia all’inizio dell’estate 2020. Un gruppo di amici può essere considerato un’avanguardia politica? Non abbiamo mai stabilito il numero preciso del nostro collettivo, dieci o più? Probabilmente non vogliamo definirlo, preferiamo lasciare che chiunque possa prenderne parte, anche solo temporaneamente, permettendo a Czarnagora di evolvere costantemente anche nelle sue dimensioni. Organizziamo mostre, eventi musicali, workshop, poetry slam, concerti noise, produciamo musica, a volte combinando il tutto senza avere un’idea precisa di risultato. Abbiamo iniziato organizzando rave, molti dei quali con estrema spontaneità, poi con l’arrivo del lockdown ci siamo avvicinati a una dimensione più “domestica”, organizzando eventi con meno persone, iniziando a produrre vinili e tape, e dando spazio a sonorità diverse. Anche i contesti con i quali ci confrontiamo per ospitare i nostri progetti sono molto diversificati, finora abbiamo collaborato con la Kunsthalle di Zurigo, gli squat di Grimselstrasse, Gessnerallee, Rote Fabrik, Radio Megahex, L’Istituto Svizzero di Roma, Lo Swiss Institute di New York, e molti spazi alternativi.
All’interno del collettivo condividiamo degli atteggiamenti che non riusciamo però a riassumere in un unico messaggio. Potrei dire che si tratta del modo in cui le persone interagiscono e scambiano idee. Qualunque sia la tua produzione culturale, il tuo orientamento politico diventa evidente, per esempio, nella scelta delle persone con cui lavori, la forma in cui pubblicizzi il tuo lavoro, la vita stessa è politica. Ad esempio, quasi nessuna delle persone che collaborano con Czarnagora ha radici esclusivamente svizzere, e quando qualcuno del tuo gruppo di amici viene deportato a causa della politica migratoria, tutto diventa improvvisamente una questione reale.
La distruzione del nostro ecosistema è reale. L’erosione delle strutture democratiche è reale. La digitalizzazione è reale. Le strutture patriarcali e di genere sono reali. Certamente, la consapevolezza di queste realtà ha un impatto sull’estetica della nostra produzione. Ogni struttura musicale riflette il suo ambiente.
AFF: Un elemento ricorrente nel tuo lavoro, che ha radici nelle forme di comunicazione connesse ad eventi musicali è il poster. Poster utilizzati come veicoli di finzione narrativi, come il lavoro Embarrassed and Conciliatory (2019) esposto al Colorificio a Milano in occasione della tua mostra personale.
CDN: Per Embarrassed and Conciliatory ho utilizzato una tecnica di mitopoiesi per costruire un personaggio fittizio, una sorta di alter-ego che fosse imbarazzato e conciliante, annoiato e disinteressato, per citare il titolo della mostra. Ho abbandonato la mia figura mettendo in atto un non-riconoscimento immaginando una mostra, narrata solo attraverso un racconto scritto e performato negli spazi del fruttivendolo di via Giambellino. Questo spazio di transito quotidiano è divenuto sede espositiva in occasione dell’“Ano Solare”, una programmazione annuale centrata sulla sessualità e le strategie di auto-esposizione del sé come strumenti per descrivere nuove possibilità di azione politica collettiva. In una sorta di mitomania, il personaggio che ho interpretato è una figura svogliata, in crisi, immobile, rigida, annoiata e motivata da una procrastinazione continua, che mentre descrive una mostra immaginata, si fa la pipì addosso, lasciando la sua urina su una delle sedie moderniste, disposte a mo’ di sala d’attesa. Uno dei pochi elementi presenti nello spazio era una tela dipinta, un poster, annunciando un evento esistente solo all’interno della lecture-performance, anticipando una mostra che di fatto non si sarebbe mai concretizzata. I poster hanno una propria dimensione che esiste oltre l’evento stesso, alludendo a delle aspettative e generando fantasie e illusioni.
AFF: Artisticamente, utilizzi spesso materiali eterogenei, immagini, simboli, prodotti di design, ready-mades, citazioni di testi, che ricomponi in maniera personale attraverso la pratica del mash-up, strategia utilizzata ampiamente in campo musicale per accostare contenuti diversi. Puoi dirmi di più di questo approccio?
CDN: Prima di utilizzare la tecnica del mash-up in ambito musicale, l’ho approfondita nel design ma soprattutto con la scrittura. Nella mia pratica artistica, spaziando tra i diversi medium, cerco di plasmare modelli formali e linguistici tramite interpretazione e arbitrarietà.
Negli ultimi anni ho concentrato la mia ricerca sull’analisi dell’impossibilità di autonomia degli ibridi nei processi di estetizzazione e democratizzazione, attraverso i quali il sistema culturale assorbe e neutralizza qualsiasi contenuto culturale o emozionale, evidenziando problematiche relative alla differenziazione e alla normatività.
L’idea di genere rappresenta per me uno spazio ibrido, dove tutti i contenuti di identità sono confezionati legittimati e incarnati dallo stesso paesaggio democratico e tollerante. In questo contesto, la teoria della normalizzazione è diventata uno scenario ricorrente in cui immagini e simboli generici ci permettono di sentirci parte di un ambiente sociale comune e indifferenziato, all’interno del quale condividiamo un diffuso e generico senso di appartenenza verso tutto e tutti.
“L’impossibilità di differenziazione”1 è diventata per me uno strumento per indagare lo status degli oggetti nel paesaggio contemporaneo. Un’analisi delle relazioni umane e non, attraverso la percezione, l’appropriazione e la comunicazione.
Partendo da questi presupposti ho iniziato ad approfondire l’indagine sull’auto-identità nella condizione post-estetica, e come quest’ultima sia fortemente influenzata dall’idea di bene, piacere e gusto, chiedendomi come in questo contesto l’immagine prodotta dal creativo2 si dissolva.
Nei miei racconti e nelle mie performance cerco sempre di mantenere il linguaggio in una condizione di mezzo e di ambiguità, dove contenuti personali ed emozionali possono coesistere con riferimenti culturali in una forma ibrida che difficilmente prende una posizione, ricreando una condizione “democratica” in cui tecniche, contenuti personali, politici e riferimenti a movimenti storici (Astrattismo, Minimalismo, Postmodernismo, ecc.) vengono utilizzati come stili, assumendo tutti lo stesso peso all’interno di un’immagine o un contenuto. Una condizione estremamente bilanciata e sofferta. Penso che il mash-up, al di là della sua estrema diffusione in ambito musicale, sia un linguaggio strettamente connesso alla condizione capitalista in cui viviamo.
AFF: Questo procedimento è particolarmente visibile nella serie di lavori Erotic Injury (2020) esposti nella mostra “FUORI” – Quadriennale di Roma (2020-21). Immaginati come libri aperti, queste sculture, in bilico tra decorazione e formalismo sono rivestite con tessuti per l’arredo d’interni o pattern altamente riconoscibili, sui quali applichi frammenti di testi personali e di cui ti sei appropriata. Il libro diventa così portatore di significati altri e opera in maniera simbolica più che cognitiva.
CDN: Ho iniziato questa serie di lavori circa un anno fa, in occasione della doppia personale con Philip Ortelli nello spazio Palazzina a Basilea. Erotic Injury è una serie sulla quale continuo a lavorare, inizialmente l’idea è nata osservando la pila di libri che ho in camera e che non ho mai tempo di leggere; negli scorsi anni li ho trasportati attraverso innumerevoli traslochi e sono ancora lì che mi osservano in maniera giudicante. Sono da sempre stata affascinata dai tessuti e ne ho diversi scatoloni pieni in studio. Nei primi lavori della serie di Erotic Injury ho utilizzato dei tessuti di sedute di Vitra trovati in un negozio di tessuti usati o scartati da grandi aziende di Basilea.
Questi lavori hanno una dimensione ibrida tra scultura e dipinto ispirata ad oggetti da decorazione di interni per via dei tessuti da tappezzeria che li rivestono. Quando ho realizzato il primo lavoro di questa serie, stavo cercando un display per presentare un racconto di porn-fiction. Questi racconti sono sempre più o meno brevi e non hanno mai un inizio e una fine, per cui ho creato questo oggetto dalla forma di un libro aperto; altri lavori della serie sono invece estremamente formali e diventano delle tele o degli oggetti.
AFF: Utilizzi la scrittura come un malleabile mezzo di espressione adottando l’alter ego di scrittrice di racconti erotici Beauty Hurts (2018), Erotic Injury (2020) e A Hole with a view (2020). Questa figura e i suoi racconti – o parti di essi – ritornano nelle tue sculture, diventano punto di partenza delle tue performance o formano il contenuto di un EP. Mi affascina molto la tua relazione con il linguaggio e la tua estensione dell’io come strumento narrativo e percettivo.
CDN: Cerco di usare la scrittura come forma di auto-progettazione ma anche di auto-osservazione, considerando il linguaggio come materiale in relazione ad idee di upcycling ed altre tecniche di appropriazione e rielaborazione. La proliferazione di pratiche artistiche a partire dagli anni ‘60 e l’obsolescenza accelerata della maggior parte dell’arte, ha portato il Postmoderno ad abbandonare il purismo formale proprio del Modernismo generando un rimescolamento eclettico delle tendenze dello stesso.
Il racconto Beauty Hurts. But not so much as the lack of it (2018) è articolato tra poesia, citazioni, testo d’inchiesta, sceneggiatura e flusso di coscienza, ottenuto tramite la tecnica del cut-up. Ho utilizzato le parole come immagini per tracciare un ritratto di me stessa, all’interno del quale ho accennato cinicamente a strategie di relazione sociale e di omologazione.
Nella serie di racconti Erotic Injury (2020) invece è sempre impossibile identificare un autore o un personaggio, perché scrivo sempre in prima persona enfatizzando l’ambiguità dei racconti mediante l’utilizzo frammentario di citazioni. Tra mitopoiesi e horror speculativo, scrivo questi racconti come critica alla costruzione del soggetto, a cui mi oppongo attraverso l’uso di fiction, disorientamento, svogliatezza, crisi e immobilità. L’horror è un concetto sfuggente, la cui critica può essere letta come una sorta di drammatizzazione inconscia ed esagerata del confronto tra il conservatorismo sociale e i poteri corrosivi della cultura, dei media e dello spettacolo. In una sfera quotidiana e non seriale, la circolazione dell’horror avviene attraverso la diffusione e la manipolazione della cronaca nera, in cui il fascino dell’apocalisse, delle breaking news e della potenzialità di una guerra, diventano un discorso mediato di catastrofi tra emozione e azione.
Attraverso il loro punto di collisione e ambiguità, fascino e repulsione, l’horror-porn e il gore diventano strumenti utili a indagare i meccanismi culturali e sociali di adesione alle narrazioni costruite del catastrofismo, e a ripensare i processi di neutralizzazione utilizzati dall’industria dello spettacolo.
Per accompagnare i libri di Erotic Injury (2020) esposti alla Quadriennale di Roma, e per enfatizzare la mia mitologia quale autrice di racconti porn-gore, ho realizzato una serie di quattro sculture: Long Story Short (2020), lastre di ferro piegate e lucidate a specchio che ricordano delle grandi punte di penne stilografiche, disposte nello spazio di Palazzo delle Esposizioni in maniera differente l’una dall’altra e in dialogo con l’architettura della sala concepita da Alessandro Bava. Scrivere e mettere in scena A Hole with a view (2020) in occasione del progetto “1000 Spaces” per l’Istituto Svizzero è stato davvero divertente. Ho coinvolto Valentina, Yesh, Urban, Ronja e Dominic, amici artisti che suonano anche strumenti musicali, ed è stata la prima volta in cui ho realizzato un lavoro sonoro composto da scrittura, performance e musica. Volevo creare una sorta di piano bar o musical distopico accessibile, a causa delle restrizioni Covid-19, solo attraverso la radio Megahex. La performance è durata circa 45 minuti ed è stata quasi completamente improvvisata. Ho chiesto a Ronja e Yesh di cantare e narrare il testo, mentre io e Valentina improvvisavamo con sintetizzatori e drum-machines, Urban al piano e Dominic al sassofono.