Maurizio Cattelan dice che il suo lavoro si basa su prestiti: “Prende in prestito” molto dalle mitologie e dalle ritualità collettive, in una parola dal reale che più ci tocca, e trasforma tutto in qualcosa di inaspettato. Per noi osservatori, questo qualcosa sulle prime ci pare a mala pena tollerabile a causa del cinismo che abbondantemente ne promana, o al contrario dal patetismo di cui sembra intriso. Poi naturalmente ci acquietiamo e disponiamo ad accettare la nuova provocazione, e a ragionarci sopra.Prende molto in prestito ma anche molto presta, o regala. Nel 1997 a Münster, per esempio, appronta una leggenda per il lago. Se lo specchio d’acqua alle propaggini della città tedesca si mostra privo di attrattive paesaggistiche, monumentali o quant’altro, l’artista lo rende interessante e peculiare, sia pure temporaneamente, inventando lì per lì una storia, naturalmente orrorifica, dichiaratamente prefabbricata ma non priva di pathos. Immerge nell’acqua un manichino femminile che affiora appena con i capelli, e che in situ naturalmente quasi non si scorge, e crea l’annegata, magari l’assassinata e insomma il lago della donna morta.
Che non si veda bene l’installazione è quasi meglio, dice l’artista, ma non è il solito atteggiamento autolesionistico: l’importante è l’evocazione della storia, dell’atmosfera, quel tanto di gotico o misterioso capace di redimere la piatta normalità suburbana in cui l’artista sceglie, et pour cause, di intervenire. Un modo originale di rispondere al tema della mostra, la scultura all’aperto, il rapporto con il tessuto della città, la funzione collettiva dell’opera. Con ironia ma senza esaurirsi in essa; a partire da una dichiarata finzione, ma senza compiacimenti effettistici.
A Rivoli la favola orrorifica si volge ad attaccare il suo stesso autore. Ormai ha fatto epoca il manichino dello scolaro, vestito con veri abiti infantili, seduto al suo banco di scuola con le mani conficcate al piano tramite due matite (Charlie Don’t Surf, 1997). Il volto è quello dell’artista, la testa protetta dal cappuccio della felpa verdina. Per accentuare, ammesso che ce ne fosse bisogno, il fantasma di autopunizione che l’opera esterna, lo scolaro viene accostato al muro in modo da mostrare le spalle al pubblico, come in posizione di castigo: il visitatore si deve avvicinare per scoprire di che lacrime grondi e di che sangue.
Questo della collocazione è un particolare interessante: la prima idea contemplava una visione frontale del povero ragazzino, l’idea di mostrarlo di schiena è venuta dopo e a me pareva la solita insicurezza dell’artista, divenuta ormai una posa insopportabile.
Invece no, in questo Cattelan è lucido e inflessibile: le mie insicurezze sono sempre state la mia forza, mi ha detto in uno dei nostri viaggi in macchina. Aveva ragione, ovvio, e adesso l’opera sembrerebbe non avere più senso se vista frontalmente.
Trasformare la debolezza in forza è allora diventata l’idea con cui si apre il mio testo su di lui, in catalogo.
In occasione della sua prima mostra personale a New York, Maurizio Cattelan viene a trovarsi in un’impasse organizzativa e psicologica. Due progetti consecutivi di installazione si rivelano impossibili da realizzare e troppo costosi. Che fare? Visto che si sente un asino, cerca per così dire di esternare questo sentimento di disistima con un atto di ingegno che lo riscatti, e che salvi la mostra. Espone perciò un asino vero in galleria, insieme a un lussuoso lampadario. L’operazione non passa inosservata nel microcosmo in cui è calata. Gli inquilini e il proprietario del palazzo in cui ha sede la galleria ottengono che l’asino sia allontanato il giorno successivo all’inaugurazione della mostra per via dei regolamenti sugli animali domestici; in sua sostituzione, viene esposta una lunga salsiccia. L’impasse diventa l’oggetto stesso dell’esposizione, e giocando con le metafore l’artista trasforma una debolezza in una forza. La mostra newyorkese ha avuto luogo nel 1994, da Daniel Newburg, e la si può intendere come emblematica del metodo di lavoro di Cattelan. Reagendo a uno stato d’animo, l’artista dà vita a un evento capace di mettere in luce le specificità del contesto in cui opera e della dinamica sociale che si intravede al di là di esso. Lo stato d’animo connette il privato alla sfera pubblica, la soggettività alla collettività, funge da sensore per orientare le mosse dell’artista, le sue risposte agli stimoli che riceve dal sistema dell’arte.
Dal sistema dell’arte e dalla realtà stessa, aggiungerei oggi. Vorrei comunque sottolineare questa istanza dello stato d’animo, che riallaccia davvero il lavoro di Cattelan a quello di Boccioni per il ruolo che viene assegnato all’emotività o, per meglio dire, all’empatia fra il mondo interiore e quello esteriore. L’empatia emerge improvvisamente alla coscienza e fa combaciare le due dimensioni in momenti imprevedibili, staccati da una continuità, ma tali da far scaturire la conoscenza del mondo.
Certo, il maestro futurista esprimeva da un lato una visione di magnifiche sorti e progressive e dall’altro il senso profondo di appartenenza al cosmo; Cattelan esprime una consapevolezza che non saprei come altro definire se non come il sapere della contraddizione. Ciò si nota proprio nella mancanza di continuità che si rileva nel suo lavoro, che si articola per scatti e scarti, e sempre più prende senso dal contesto in cui è calato. Il suo metodo è intuitivo, non dà adito a un sistema e si basa sulla casualità delle connessioni del senso. Il risultato è che ogni opera diventa una sorpresa.
La più emozionante fra le più recenti è stata quella di Manifesta 2. La sua è risultata essere l’opera più imponente e importante di tutta la manifestazione. Per una volta, l’autolesionista che si ritrae a costo di scomparire (a Digione faceva il vuoto al quadrato, non esponendo niente e letteralmente scavando una fossa nel pavimento), tocca un eccesso opposto e strafà in presenzialismo. La sala più grande del Casino Luxembourg si mostra a mala pena sufficiente per ospitare un enorme cubo di terra vera, intorno a cui gli osservatori circolano e sulla cui sommità svetta un ulivo altrettanto vero. Albero assente nel paesaggio naturale del Lussemburgo, l’ulivo evoca forse il paese d’origine, come con ironica nostalgia il formaggino Bel Paese ha dato vita a un tappeto e ad altri lavori. L’evocazione di un ambiente tuttavia non basta a darci ragione di un’opera che vive del suo proprio eccesso e che si radica nella più felice polisemia (succede alle migliori opere d’arte, non è vero?).
La memoria corre a Pascali e al suo metro cubo di terra, ma qui le proporzioni stravolgono ogni rapporto euritmico con l’ambiente. Torna in mente il Socle du Monde di Manzoni ma la sua evocazione cosmica, sia pure ammantata di ironia, si rovescia nella teatralità di questa operazione. Si gioca nell’enormità anche il rapporto fra esterno e interno, ogni riferimento a eventuali precedenti artistici, ogni relazione di senso passa attraverso il grande impatto che l’opera determina, e li rende insufficienti. Direi allora che tutta la tradizione del ready made ci viene restituita privata delle sue sottigliezze concettuali (la de-contestualizzazione non impressiona più nessuno) e trasformata in trovata ridente e parodistica — parodia indirizzata anche al concetto di realismo, naturalmente, ma ci interessa di meno.
La parodia è una categoria che incontriamo di frequente in Cattelan. Nel testo per Rivoli che ho citato ricorrevo fugacemente a Michail Bachtin. Per lo studioso russo, il linguaggio di Rabelais coglie dalle culture popolari tutti quegli elementi che costituiscono il controcanto parodistico dei linguaggi aulici e colti delle classi dominanti, e che si ritrovano nel carnevale inteso come momento collettivo liberatorio. Il sapere aulico che Cattelan affronta è l’insieme di regole che sostiene il sistema dell’arte; l’artista usa la parodia per tematizzarne i riti e i miti. Sappiamo già in che modo: sfruttando per esempio il privilegio, anche comportamentale, di cui gode l’artista. Mura la porta della galleria per lasciar intravedere l’orsacchiotto che corre sulla corda solo dalle finestre, mentre il gallerista sfrattato deve andare altrove a lavorare. Obbliga i galleristi a travestirsi con ridicoli costumi (quello di Errotin le vrai Lapin resta però uno dei pochi veri colpi di genio dell’arte degli ultimi anni) costituendo essi stessi la mostra.
Il carnevalesco ricorre nei costumi che fa costruire sulle fattezze rese fumettistiche dei grandi artisti Georgia O’Keeffe (per una mostra a Santa Fe) e Pablo Picasso.
Quest’ultimo costituisce la più recente installazione di Cattelan, invitato dal Museum of Modern Art nell’ambito della Project Room. Non potendosi accontentare di una sala, Cattelan si è preso tutta la lobby del MoMA, sia pure a orari stabiliti. Due mimi, un uomo e una donna, si alternano nell’indossare il costume di Picasso da vecchio: grande faccione un po’ corrucciato e coi capelli bianchi, maglietta a righe e pantaloni blu della famosa foto sulla spiaggia, lui con la giovane moglie e l’ombrellone.
Anche qui si fa menzione di Bachtin e del suo controcanto parodistico. Nelle parole della curatrice, Laura Hoptman, Picasso ballonzola qui e là, intrattiene i visitatori, si fa fotografare con loro, dentro e fuori il museo. Il MoMA diventa allora qualcosa di ibrido a causa di una tale stravagante e forse molesta presenza: da chiesa eretta a maggior gloria dell’Arte Moderna si trasforma, sia pure a orari fissi, in una specie di Disneyland abitata da questa mascotte che saltella per ogni dove con gran sorpresa dei bambini. Significativa una richiesta dell’artista, non a caso respinta dall’istituzione: negli orari di chiusura, Picasso avrebbe dovuto starsene fuori, sul marciapiede, a chiedere l’elemosina divenendo disoccupato e homeless.
La parodia di Cattelan si accompagna al gusto per l’eccesso, che rovescia i discorsi d’ordine così come il carnevale mette il mondo all’incontrario. Ciò non significa che tutto, essendo eccessivo nello spazio e nel tempo, si risolva nell’impatto emotivo o nella risata. Non mancano infatti sottigliezze allusive, come quando, nella nuova galleria di Perrotin a Parigi, rifà pezzo per pezzo la mostra di Carsten Höller che si tiene nello stesso momento nell’attigua Galleria Air de Paris. Lo spettatore vive un temporaneo détournement vedendo per due volte le stesse opere allestite nello stesso modo, per constatare poi di assistere a un’operazione che interviene criticamente sul concetto di artista come personalità unica e ineguagliabile (residuo romantico) e come inesausto produttore di novità formali (sottofondo mercantile). Ambedue gli aspetti sono toccati anche negli interventi per la Biennale di Venezia: nel 1993, invitato ad Aperto vende il suo stand a una piccola casa produttrice di profumi, che vi installa un poster; nel 1997, per il Padiglione italiano, la collaborazione con Enzo Cucchi ed Ettore Spalletti si risolve in un’operazione di reciproco disturbo percettivo, con i brani di realtà del nostro, veri (le biciclette) o più veri del vero (i piccioni tassidermizzati), a trascinare verso il basso (allarmanti segni sulla moquette) il tono generale dell’operazione.
L’economico che in questo modo l’artista fa emergere nel sistema dell’arte rimanda direttamente ai rapporti di produzione che governano il sociale, e per questa via al rapporto con la realtà che il lavoro artistico tocca nelle sue riflessioni. Cattelan lo fa per allusioni e sottigliezze. Alle operazioni per la Biennale aggiungiamo nel ricordo anche le sue prime incursioni: la squadra di calcio di extracomunitari, lo stand abusivo per promuovere la squadra ma anche, più recentemente, operazioni al limite della provocazione. Ricordiamo ancora lo scandalo giornalistico per le rovine del PAC bombardato, scelte e presentate come opera col solo atto di impacchettarle sia in una grossa borsa blu sia in due similari cataste di sacchi bianchi avvolti nella plastica.
Si tratta in realtà di testimoniare un evento tragico, legato alla malavita organizzata, che per una volta toccava il mondo delle istituzioni artistiche e a cui giustamente bisognava rispondere. L’artista lo fa con una sorta di memento mori che vale anche come segnale di non cedimento ai ricatti terroristici, e che ancora oggi non capisco come mai sia stato frainteso come cattivo epigonismo dada.
Ma quelli di Cattelan non sono gesti dadaisti perché non pretendono di essere dirompenti, non essendoci più nulla da dissacrare (o, se sì, non essendo l’arte l’ambito che può rivoluzionare davvero qualcosa). Dice Karl Jaspers che l’eroe tragico moderno s’incarna nella figura di Amleto e che la sua tragedia sta nel non poter decidere data l’irresolubilità della contraddizione in cui si dibatte. Quando dico che Cattelan esprime un sapere della contraddizione intendo dire che il suo atteggiamento parte da qui, dalla più o meno lucida consapevolezza di non poter scegliere “da che parte stare”, data l’estrema molteplicità del vero.
Calato quasi integralmente nel sistema delle informazioni, dove il reale si dà come loro effetto o non si dà, l’artista sa di porsi ormai al di là dello stallo descritto dal filosofo, e di affrontare non il tragico, per il quale non c’è più un linguaggio, ma il suo puro spettacolo.
Un artista come Cattelan adotta allora il tragicomico per direzionare il suo atteggiamento verso il mondo, unico tono emotivo che sappia tener conto del reale nella sua imprendibile complessità. Per questo molte delle sue operazioni sembrano bilanciarsi fra gli estremi opposti del cinismo e del patetismo: la loro ambigua doppiezza rappresenta l’unica modalità possibile di fare esperienza del reale.
Non a caso l’artista, quando vi ricorre, usa presentarci le situazioni che ritiene significative nel modo più immediato possibile. E ritorno al mio testo: “Fra le sue opere ve ne sono che risultano incomprensibili se separate dalla realtà a cui fanno riferimento. È il caso delle casseforti scassinate presentate in occasione della collettiva ‘Ottovolante’ all’Accademia Carrara di Bergamo nel 1992: dopo averne letto sui giornali, l’artista chiede alle vittime dei furti, siano esse istituzioni o privati cittadini, di vendergli le casseforti che poi espone con tutti i segni dello scasso ben visibili. Dentro il museo esse acquistano senso […] per il loro insistente indicare il contesto da cui sono tratte e che a sua volta rimanda a una contraddizione di ordine sociale. Una contraddizione che a volte esplode, nel senso che la sua incandescenza rende improponibile un lavoro d’arte dato come oggetto di riflessione, sia pure determinata da un possibile trauma, e vissuta come provocazione. Il progetto di annunciare tramite manifesti un raduno di naziskin ad Arnhem, in Olanda, in occasione della mostra ‘Sonsbeek 93’ viene respinto dalla curatrice con buone ragioni (la possibilità di disordini, il rispetto per la memoria delle vittime olandesi dell’Olocausto) ma anche con una punta di moralismo. […] Nella galleria Ars Futura di Zurigo invece viene ricostruito nei minimi dettagli il locale dove una setta satanica della città ha celebrato un rito conclusosi con un suicidio di massa. In entrambi i casi è l’ingombro della realtà che viene a occupare gli spazi del museo o della galleria, sono oggetti, immagini, segni non sottoposti ad alcuna elaborazione artistica e che non intendono rimandare ad alcunché di estetico, ma piuttosto alla problematica più ampia di cui sono gli indizi”.
Naturalmente, tutto questo passa spesso attraverso una strategia voluta e costruita, tesa allo shock, o per lo meno al pugno nello stomaco, metaforicamente parlando, rivolto all’osservatore. Credo che il disagio che proviamo davanti ai suoi animali tassidermizzati non sia dovuto solo alla nostra preoccupazione sulle modalità di messa a morte degli animali stessi (veniamo ogni volta tranquillizzati in proposito: si tratta di animali già morti…) ma anche all’effetto di iperrealtà che infondono, ancora una volta qualcosa di eccessivo.
Il progetto più recente a cui l’artista sta lavorando comprenderà senz’altro l’irritazione fra gli effetti che prevede di produrre. Per Anthony d’Offay a Londra è in lavorazione un muro di granito nero della lunghezza di tre metri e alto due e mezzo, con sessanta centimetri di spessore (misure indicate dall’artista, si vede che ci tiene), in modo che lo spazio, uno dei tre di una delle più importanti gallerie del mondo, risulti difficilmente agibile a causa dell’ingombro che l’opera procura. Non basta: sul granito verrà incisa la lista delle partite perse dalla nazionale di calcio inglese.
Un muro del pianto al limite dell’ingiuria al sentimento nazionalistico, l’opera non offenderà le tifoserie inglesi, o almeno non sarà questo il problema. Irriterà invece tutti coloro che vi scopriranno una parodia (come altrimenti definirla ancora non so) del monumento ai caduti in Vietnam eretto negli Stati Uniti, e ogni altro sentimento altrettanto politicamente corretto. Staremo a vedere.