Eleonora Milani: Un anno fa ormai, quando è stato annunciato il tema di questa Biennale, “Il latte dei sogni / The Milk of Dreams”, ho subito acquistato il libro di Leonora Carrington, titolo omonimo di questa Biennale. È stata una bella scoperta per me che conoscevo superficialmente il lavoro di Carrington, una di quelle figure tenute pressoché a margine dei programmi di studio universitari, sempre legata a Max Ernst e al Surrealismo di Breton, insieme a tante altre figure che si ritrovano nella tua mostra. Le rappresentazioni oniriche in questo libretto, ironiche ma anche macabre, non sono affatto “digeribili”. Intendo dire che il modo in cui Carrington associa la scrittura, apparentemente semplice, alla crudezza del disegno, lasciano una sensazione disturbante. Perché sei partita da Carrington, o meglio perché la tua riflessione parte da un “disturbo”?
Cecilia Alemani: In realtà la scelta di cominciare la riflessione di questa Biennale da Carrington è dovuta anche a una serie di coincidenze: mi riferisco al lavoro che si sta facendo da diversi anni sulla storicizzazione delle artiste surrealiste non ancora totalmente assorbito. Penso a mostre come “Fantastic Women” che stava viaggiando nel 2019, prima della pandemia. Sicuramente c’è una attenzione rinnovata, iniziata da tanti anni e che sta esplodendo in una serie di importanti esposizioni internazionali. Prima sono incappata in The Hearing Trumpet, questa storia semi-autobiografica di Carrington e la sua amica, due vecchiette che si ribellano al sistema dell’ospizio, e soltanto dopo ne Il latte dei sogni, un libro apparentemente per bambini. L’ho scelto per la semplicità e il potere di coniugare parola scritta e linguaggio visivo, che è uno degli aspetti più interessanti della sua visione. Questo libro univa la stessa libertà di pensiero e approccio ibrido alla vita che ingloba storie di esseri che si trasformano, che diventano “altro” in una fluidità giocosa e leggera, in un senso sorprendente e freddo… un po’ come il nostro presente.
Il libro evocava un mondo in cui ci è concesso cambiare e diventare altro, intriso da sentimenti come il disturbante, l’ironico e l’umoristico, anche il macabro: insomma ha la capacità di mischiare queste sensibilità.
EM: In seguito a un periodo drammatico in cui Carrington viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico, le sue esperienze vengono raccontate in Down Below (1944), libro che l’artista scrive su suggerimento di Breton. La scrittura è un’attività che prosegue e approfondisce, creando uno stile personale ispirato ai temi e alle visioni oniriche del Surrealismo. Dopo la guerra si trasferisce prima a New York poi in Messico, dove sviluppa la sua arte, ricca di figure enigmatiche legate alla mitologia religiosa e onirica. Nonostante le sue origini europee, Carrington è riconosciuta come una delle maggiori figure del Surrealismo latino-americano. C’è una forte presenza di artiste sudamericane nella tua Biennale, soprattutto tante riscoperte. Quanto è ancora importante per un format come la Biennale Arte “recuperare” artisti/e tenuti in ombra e quanta incidenza ha ancora sulla “fortuna critica” e sul mercato?
CA: Non ho una risposta definitiva, penso piuttosto ai casi in cui la Biennale non ha fatto questo lavoro.
Questa Biennale per me è anzitutto una mostra, non la penso come una Biennale come il formato richiede, ovvero una mostra che espone gli ultimi due anni di produzioni artistiche globali. Mi interessava mettere le cose in una prospettiva temporale estesa, e questo una Biennale ti permette di farlo.
La Biennale di Venezia poi assorbe tutti gli urti della storia, va oltre l’arte, è transdisciplinare (Teatro, Danza, Musica, Cinema, Architettura) e questo è anche il risultato di questo momento storico. Non sarà una mera panoramica sulle ultime tendenze dell’arte contemporanea, ma il reinterrogarsi su quello che è venuto prima, periodi che sono vicini a quello che stiamo vivendo, come le due Guerre Mondiali. La Biennale non è una bolla indipendente e il mio ruolo è anche quello di riflettere e riportare alla luce ciò che è stato messo da parte dalla storia della Biennale, e ricucire quegli strappi, guardare alle passate esposizioni come un passato reinterrogabile, che si può rimettere in questione. Spesso è anche la paura di reinterrogare la storia a rendere problematico il format e solleva questioni importanti.
EM: Parliamo della magia. Per Carrington soprattutto i tarocchi erano un dispositivo di predizione, ma soprattutto un metodo aleatorio per accedere a una “poetica dell’inconscio”. L’immaginario dei tarocchi di Carrington attinge ai classici mazzi di Rider Waite e Pamela Colman Smith (1909), a Oswald Wirth (1889) o ai Tarocchi di Marsiglia, ma con significativi cambiamenti formali e iconografici. Questa sua attenzione alla magia riguarda la seconda parte della sua vita e della sua carriera artistica a Città del Messico, dove il suo interesse per la magia era legato anche alle letture di Lewis Carroll, William Butler Yeats. Come veicoli il magico in questa Biennale?
CA: Il magico è un’atmosfera. Sono arrivata a questo intuitivamente, non ho subito pensato a una connessione con l’Arsenale. Ho realizzato, dopo questi ultimi due anni di studio visit interminabili da remoto in cui ho incontrato centinaia di artisti, che molti di loro stanno tornando a strumenti artistici e linguaggi più introspettivi, inconsci.
Ma non lo fanno per fuggire dalla realtà o voltare le spalle al presente e alla politica, ma piuttosto utilizzano la lente dell’introspezione, del magico e del fantastico per leggere quello che c’è fuori.
Come Carrington che usava figure in metamorfosi che riflettevano la società coeva, non propriamente come rifugio ma come mezzo per parlarne. Ci sono meno lavori apertamente politici o documentaristici come The White Album di Arthur Jafa nella scorsa Biennale del 2019, ed è anche un riflesso quasi naturale sulle produzioni di artisti che sono stati isolati per quasi due anni. Per noi la pandemia è stato il momento più grave vissuto nella nostra vita, e molti artisti hanno scelto l’allegoria come strumento di comunicazione, come la scelse il Surrealismo a cavallo tra le due guerre mondiali. Un modo di uscire, come Carrington, dalla fissità dell’identità e della condizione sociale.
EM: Nella tua Biennale sono presenti queste costellazioni o bolle temporali attraverso cui cerchi di dare compiutezza al tuo impianto curatoriale. Un lavoro che ingloba un metodo documentale, un approccio archivistico. L’archivio è un macro tema molto discusso e sperimentato oggi, soprattutto nel format espositivo, sembra esserci una sorta di revival degli anni 2000 con una ricerca alla visualizzazione molto diversa chiaramente.Inoltre, questo aspetto ha una matrice molto forte nella storia curatoriale italiana, il recupero della “fonte”. Come consideri il tuo approccio curatoriale rispetto alla storia della curatela, da Szeemann in poi?
CA: Partendo dalle cinque capsule per me è stato importante provare a fare una mostra trans-storica, perché mi interessava mettere in dialogo nuove generazioni con artisti che hanno lavorato cento anni fa, ma utilizzavano le stesse metodologie o tematiche simili anche nel primo ‘900.
Poter sovrapporre temporalità diverse è parte della mia pratica: uno spettatore può entrare nella capsula storica e guardare come le artiste usavano il linguaggio dell’astrazione per relazionarsi al proprio corpo e scoprire come di contro oggi, attraverso altri medium, molte artiste facciano le stesse cose.
Queste capsule fungono da input al visitatore per guardare al contemporaneo. L’altra ragione di queste cinque capsule è volere guardare all’Archivio storico della Biennale, l’ASAC, che esiste dalla fine degli anni Venti ed è un lascito importantissimo. Già con la mostra “Le muse inquiete” pensavo all’idea di storia, quale storia verrebbe da reinterrogare. La Biennale è una delle più importanti istituzioni al mondo ma non dimentichiamoci che un’istituzione ha il dovere di mettersi in gioco continuamente e guardare agli errori e alle lacune. Penso per esempio all’edizione del 1948 che da un lato guardava in avanti, con Peggy Guggenheim che espone la sua collezione nel Padiglione della Grecia allestito da Carlo Scarpa, ma che anche si volta indietro a riesaminare tutte quelle tendenze e movimenti che erano stati censurati durante il ventennio fascista.
EM: L’exhibition display è un altro tema cruciale, l’evoluzione della museografia che cerca di trascendere la storia dell’arte ed essere trasversale guardando alle altre discipline che contribuiscono alla visualizzazione dell’immagine, al mettere in mostra le immagini. Per questa mostra hai affidato l’allestimento ai Formafantasma con i quali avevi già collaborato. Cosa pensi della loro pratica e del loro approccio al display in relazione all’arte?
CA: Con i Formafantasma abbiamo già lavorato insieme a “Le muse inquiete”, nonostante fosse una mostra molto diversa da questa Biennale. Per me l’exhibition display è una cosa quasi nuova perché non sono abituata a lavorare con architetti. A New York lavoro sempre con gli artisti all’High Line che è in sé un pezzo di architettura. Così, naturalmente ho preferito creare un environment: queste cinque stanze che ho immaginato possano restituire un’atmosfera in cui il lavoro dei designer ha un impatto diverso, più autoriale, con un’attenzione particolare ai dettagli, all’idea di far convivere oggetti, documenti e libri che hanno bisogno di un certo tipo di cura. Così è venuta fuori un’alternanza di concentrazione ed espansione, il cui obiettivo era dare vita a un respiro in uno spazio come l’Arsenale, monotono ed esteso, dove le capsule aiutano a creare un ritmo che ne facilita la fruibilità.
EM: Il rapporto tra uomo e macchina, la metamorfosi del corpo, del concetto di umanità stessa è un tema centrale della tua Biennale, che ha attraversato una lunga gestazione – una pandemia, momenti di forte crisi sociale e adesso una guerra… Pensi che l’arte possa ancora riflettere questi cambiamenti epocali? Hai parlato di nuove forme di coesistenza, che l’arte spero davvero possa contribuire a trovare…
CA Penso che l’arte abbia sempre un grandissimo valore simbolico. Non fermerà la guerra in Ucraina ma ha un forte valore educativo.
Metà del mio lavoro sta nella diffusione di conoscenza. Vecchio e nuovo, anche con tante voci di artisti indigeni, racconteranno a uno spettatore più o meno esperto visioni del mondo completamente diverse. La coesistenza è un’immagine forte e importante nel nostro esistere tra individui, ma anche con il pianeta, ed ha un valore simbolico ed esemplare per leggere la nostra relazione con il mondo.
EM: Quale edizione della Biennale Arte ha più inciso nella tua carriera curatoriale?
CA: La prima Biennale che ho visto era quella del 1999 e mi aveva fatto una impressione incredibile, all’epoca non sapevo volessi intraprendere questa professione. Recentemente la mostra di Okwui Enwezor nel 2015 che, nonostante sia lontana dalla mia visione, mi fece effetto,
e ancora prima la sua documenta che mi travolse. E poi la Biennale di Jean Clair del ’95, che non ho visitato ma di cui ho letto tanto – proprio Luca Beatrice ha trovato una connessione fra “Il latte dei sogni” e quella Biennale.
E poi la mostra di Bonami mi ha influenzata tantissimo, dopo quella mostra è difficile ricreare quell’energia e quell’effervescenza, la cacofonia e la pluralità che si avvertivano, senz’altro un unicum nella storia delle biennali.
EM: Veniamo all’arte italiana, binomio spesso scomodo. Tra i ventisei artisti inclusi noto un gap di generazioni, come
se da Laura Grisi si arrivi a Sara Enrico, Giulia Cenci e la giovanissima Ambra Castagnetti. Le generazioni attive negli anni Novanta e Duemila sono assenti, probabilmente per una lontananza di linguaggi rispetto all’impianto curatoriale…
CA: Non ho fatto un discorso così consapevole o differenziato sull’arte italiana; volevo includere tanti artisti italiani, ma
ho seguito le capsule temporali, per cui non c’è stata una volontà ma una naturale aderenza al tema. Ho lavorato con artisti a cui volevo dare supporto e che incarnano al meglio le direttrici della mostra.
EM: La smaterializzazione dell’identità è un’urgenza del nostro presente. Cosa significherà questa Biennale in questo momento e che rapporto avrà con il digitale come mezzo produttivo?
CA: Spero che sia davvero il momento in cui si torni a vedere l’arte dal vivo e condividerla. Sarà una mostra concreta di oggetti, di sculture, di quadri, cosa che credo sia il risultato dell’aver passato mesi a parlare con artisti attraverso uno schermo. L’idea di rifuggire nell’immaterialità dell’arte è lontana: sarà una mostra approcciabile, fatta di linguaggi tradizionali e di artisti che non hanno paura di usare la pittura per rappresentare qualcosa. Questo ritorno al “fisico” penso che abbia tantissimo a che fare, per contro, con lo scrolling quotidiano su Instagram. La digitalizzazione della nostra esistenza è una svolta radicale come nessuna negli ultimi vent’anni e la reazione degli artisti è quasi agli antipodi, alcuni usano la pittura per sollevare questioni più astratte, altri l’NFT; siamo a un bivio.
Questo lavoro sull’identità attraverso la lente della metamorfosi in questa Biennale vuole dire per me fornire punti di entrata e chiavi di lettura alle opere d’arte. Il mio lavoro è quello di assorbire le preoccupazioni della nostra cultura contemporanea e riportarle al pubblico.