Il Goffredo Parise che si vuole chiamare in causa qui non è il grande e lieve autore dei Sillabari (Adelphi, Milano, 1984), capace di raccontare brani di esistenze di uomini (ma anche di animali e cose) in una lingua che porta sulla pagina la percezione sensibile insieme al suo portato emotivo. O non solo. C’è anche il giovanissimo Parise magico, che scrive Il ragazzo morto e le comete (Neri Pozza, Venezia, 1951): romanzo breve, memore di Lautréamont e di altre letture d’avanguardia, fatto di frammenti onirici, e soprattutto visionario. Ne Il ragazzo le visioni immaginifiche, le personalità evocate, le relazioni allucinate si compongono in un racconto spezzettato che ha al suo centro il tema della morte, intesa come un dato non necessariamente definitivo. Forse sentimenti e sensazioni attraversano il confine tra ciò che è in vita e ciò che non lo è, tra ciò che ha un corpo e ciò che non lo ha, tra chi può vedere, annusare, ascoltare… e chi no…
In entrambi questi libri di Parise, e sempre nella sua scrittura, la visione, insieme agli altri sensi, è la radice prima della narrazione. Vedere, cogliere, sintetizzare un presente fatto di dati che il lettore possa quasi respirare e percepire ne sembra il fine. Le parole sono cariche di connotazioni sensibili – ne Il ragazzo spesso incantate o stralunate, nei Sillabari sensuose e materiche. Il lettore legge del sapore di un vino che sa di zolfo e del freddo del bicchiere che è leggero nella mano del personaggio che lo beve, ed è al cospetto di un brano di vissuto. La realtà va osservata per frammenti, e dunque si può descrivere per frammenti: sia ciascuno vivido, abbia una sua luce irripetibile, si prenda carico di un istantaneo dettaglio al punto tale da rischiare l’impressionismo. Grazie a quest’approccio al mondo, per chi legge Parise, si dispone un’esperienza “spettatoriale” che tocca una misteriosa corda che sta tra l’empatia e l’entomologia. Osservati sono il dentro e il fuori degli uomini; un dettaglio permette di intuire un carattere, come il profumo di una tonaca denuncia la viziosità di un prete.
All’efficacia della sinestesia corrisponde la malinconia della transitorietà: a guardare con tanta attenzione le cose momento per momento, aspetto per aspetto, si finisce per percepirne chiaramente la caducità.
Le opere di cui parliamo hanno un soggetto, non un tema. Non c’è eroismo; c’è quotidiano. Discrezione, timidezza forse, o pudore rispetto alla malinconia per le cose che passano.
La ricerca estetica di Parise trova una corrispondenza, facile a individuarsi e descriversi anche grazie alla vicinanza temporale, con quella di Filippo de Pisis (1896 – 1956). La pittura del ferrarese è quasi preda dei sensi. Quando dipinge en plein air – soprattutto le vedute cittadine –, lo si immagina usare ognuna delle sue pennellate per riportare sulla tela di volta in volta un suono, un colore, un riflesso. Francesco Arcangeli scrive che de Pisis dipinge una “sostanza sensibile, terrestre”.[i] Nelle sue nature morte più dolci, quando la materia non diventa un’ossessione fin troppo frammentariamente sviscerata, gli oggetti ritratti sono perfettamente in bilico tra vita e morte, tra turgore di perfezione e preludio di marciume. Certo, è la tradizione della vanitas; ma senza morale giudicante. Nella natura morta Pesci nel paesaggio di Pomposa del 1928, i pesci in primo piano sono infilzati in una fiocina e stanno esattamente tra la vita e la morte. Il pittore non cerca di descriverne il tremito e invece compone la loro soda rigidità. Il de Pisis della biografia scritta da Nico Naldini, a proposito di questo quadro ricorda e osserva: “La Natura morta col luccio l’ho regalata a Umberto Saba. Saba osservandola nel mio studio insisteva a esaltare la gaiezza del colore. Allora ho dovuto spiegargli che quella gaiezza era un contrasto dovuto alla malinconia, per sottolineare la caducità delle belle cose colorate. […] Solo il luccio è studiato dal vero, appeso al manico di una fiocina piantata per terra è di una grande tristezza nella serenità dell’aria appena viola”.[ii]
Dietro ai pesci c’è un orizzonte lontanissimo, sul quale sembra caduta come un episodio casuale l’Abbazia di Pomposa (Codigoro, FE). Ci si chiede cosa accada del paesaggio quando la contemplazione del soggetto vivo è così attenta e centrale. Si potrebbe pensare che finisca per essere lo sfondo. E invece è l’ambiente da cui la storia, il momento scelto dall’autore, il soggetto dell’opera emergono. Come le colline e le montagne non sono altro che l’arricciamento di una crosta che prima era piatta. Poi qualche stravolgimento interno, sotto la crosta (sotto la pelle), ne ha alterato la regolarità orizzontale. Chi vive in pianura, chi guarda in pianura e dalla pianura, in particolare dalla vastissima pianura Padana, sa quanto sia visivamente potente qualsiasi cosa si erga dalla piattezza.
Pomposa è un’abbazia romanica nel territorio del Delta del Po, area dove addirittura la piattezza della terra si confonde con la piattezza del mare.
Non lontano da Pomposa, ad Adria (RO), è nato Simone Berti (1966). Il suo lavoro consiste di racconti e interpretazioni oniriche di immagini e oggetti familiari: animali, mobili, ritratti subiscono delle variazioni, spostamenti, aggiunte o sottrazioni. Nei suoi lavori d’esordio, di metà anni Novanta, compaiono spesso degli elementi riconducibili a trampoli, o ad altri mezzi per elevare il corpo umano e la sua dimensione abitativa. Un passaggio da un’intervista fatta a Berti da Giacinto Di Pietrantonio per Flash Art nel 1998:
GDP: Perché quest’interesse per la palafitta?
SB: Forse perché vengo da una zona paludosa, la foce del Po.
GDP: E ciò ha a che fare con l’infanzia.
SB: Naturalmente ero sempre sugli alberi. Avevo il mio albero preferito, ma qualsiasi albero andava bene pur di arrampicarmi.[iii]
Nel 2014 Berti ha partecipato alla mostra “Non potendomi arrampicare sulle nuvole, presi per le colline”, ambientata e dedicata a vari luoghi significativi di Valdagno. Questa cittadina in provincia di Vicenza, ai piedi delle Prealpi venete, vede il suo periodo di maggior sviluppo tra gli anni Venti e Trenta, quando l’azienda laniera della famiglia Marzotto prolifera al punto tale che la pressoché totalità della cittadinanza è impiegata nelle sue fabbriche o in attività connesse. L’identificazione tra la città e la famiglia del capitano d’azienda è definitivamente sancita dalla realizzazione (tra il 1927 e il 1937) della “città sociale”, un complesso di edifici pubblici e residenziali che disegnano razionalmente la vita del cittadino tra lavoro, vita privata e vita pubblica condivisa. Nel progetto della “città sociale” c’è spazio anche per le grandi ville padronali. Quella del capo di famiglia, il conte Gaetano, viene costruita al termine di un asse stradale, al cui estremo opposto è predisposto un grande parco. Al interno del parco avrebbe dovuto sorgere Villa Favorita, pronta a essere edificata su progetto di Gio Ponti. A Valdagno si raccontano motivazioni romantiche (il fallimento di un fidanzamento tra rampolli), oppure si incolpa la guerra; sta di fatto che le fondamenta di Villa Favorita – e solo loro – sono ancora lì, in cima a un’ampia scalinata scenografica alla fine di una strada dritta, tra bellissimi alberi antichi fatti giungere durante le prime fasi di scavo. Oggi Villa Favorita è un fantasma, un incompiuto.
Per la mostra “Non potendomi arrampicare sulle nuvole…”, Berti ha immaginato la vita della villa. Usando le fondamenta come una piattaforma, ha ricreato con dei mobili di recupero degli ambienti casalinghi: il salotto, la camera da letto, il bagno… Tutti innalzati di circa due metri rispetto al piano d’appoggio, grazie a delle assi di legno usate come trampoli. Nel parco patrizio di una cittadina un po’ chiusa dalle montagne, Berti ha costruito un suo orizzonte, intervenendo con il suo senso metafisico dello spazio vissuto. Ha collocato mobili dove avrebbero dovuto essere e non sono mai stati; ma nel farlo non ha preteso di sanare la ferita dell’assenza architettonica, né ha parodiato l’inesistita vita d’élite. Ha, anzi, accennato tracce di esistenza, alludendo a narrazioni e potenziando l’effetto teatrale di questo grande palcoscenico muschioso. La scelta di usare mobilio e suppellettili di recupero intrecciava ulteriormente le possibili narrazioni. Da una vita mai vissuta a vite consumate, quegli oggetti ripopolavano per un attimo un immaginario che rispondeva perfettamente all’atteggiamento esistenziale sottolineato dal titolo della mostra. “Non potendomi arrampicare sulle nuvole, presi per le colline” è una citazione da un libro di Vitaliano Trevisan,[iv] autore veneto (vicentino!) quanto Parise – e quanto Parise appassionato ai sensi e al loro decadimento. Il lavoro di Berti, come queste letterature moderne, prevede la possibilità per lo spettatore di sperimentare uno sguardo nuovo sul paesaggio naturale e antropologico che lo circonda.
Far emergere micro dati narrativi dalla tela, incrostare elementi scultorei di dettagli descrittivi, comporre narrazioni apparentemente incontrollabili tra il fiabesco e lo scabroso, sono modalità operative che connotano la pratica di Valerio Nicolai (1989). Friulano formatosi a Venezia, Nicolai è per età, e non solo, più vicino al Parise de Il ragazzo. La base è sempre la pittura: le tele sono grinzose e rabborsate sui telai, per diventare tasche o per raggrumarsi, sono tovaglie, sono un mantello. A volte dai loro colori terrosi – anzi, tintorettosi – si staccano oggettini dissacranti, crocchette per gatti, noccioline, oppure piccole sculture; altre volte dei dettagli preziosi sono dipinti in una sola parte di un intero che non si può certo definire una composizione. Nicolai gioca lo stesso gioco di creare apparizioni anche quando la pittura non sembra essere la principale protagonista: le sue opere tridimensionali prendono spesso la forma di scatole, armadi senz’ante con una o più mensole dedicate all’ostensione di un elemento naturale come mele o un naso di maiale… Teatrini? L’oscurità e la notte sono un dato visivo e abitativo, da cui emergono, stagliandosi, dei frammenti. A proposito dei suoi materiali, in un’intervista con Marco Arrigoni per ATP Diary Nicolai ha detto: “Nella chimica e nella fisica trovo la narrazione microscopica e spesso si lega con le figure mescolando non solo elementi di tipo materiale ma anche storie diverse”.[v] Il filo di queste storie va ricercato nel dettaglio e nella sua sensualità, a volte smaccata nella tensione a trasformarsi in provocazione materiale o verbale (parolacce, uso di materiali legati alla scatologia). Ma è un filo imprendibile, e lo dimostra la presenza tanto fisica quanto evocata nelle sue opere di esseri anti-narrativi come gli animali: uccelli diamanti mandarini, ma soprattutto bestie notturne come il porcospino, la civetta… Viene in mente Squerloz, uno dei personaggi de Il ragazzo che vive con degli animali e una volta fa una gara con una civetta a chi tiene più a lungo spalancati gli occhi – e vince. Poi se ne esce dalla sua cantina con gli occhi sforzatissimi che sprizzano lacrime nient’affatto sentimentali.
Spremilimoni-Candelabro (2017) è un lavoro atipico di Nicolai, soprattutto perché potrebbe essere usato per far luce. La luce è gialla, il limone è giallo, il limone è aspro, la luce è aspra; si aggiunge la tattilità della ceramica: va bene, sinestesia. Rimane il fatto che non va esposto nell’oscurità, quindi la luce è inutile: non può rischiarare il buio, ma, essendo giallo e aspro, lo combatte come può.
Parise evidentemente si fida dei suoi sensi, ma di essi soltanto: la luce che emerge dal buio, che dovrebbe essere l’alleata che permette la visione, in realtà è un fenomeno che può rivelarsi ingannevole, o chimerico. Ne Gli americani a Vicenza (All’insegna del pesce d’oro, Milano, 1966) – il racconto sull’arrivo delle truppe statunitensi nella sua città alla fine della seconda guerra mondiale – le valli e le colline si riempiono di lucciole/globi al neon vagheggianti, creando nei cittadini e nei contadini uno spavento fantascientifico. Squerloz, che vorrebbe un diurno e colorato pappagallo, non se lo può premettere, e si consola con i suoi uccelli notturni:
La civetta e il barbagianni sono belli di notte; al buio le pareti scompaiono e i quattro occhi fanno luce; certo viene subito in mente che sono gli occhi degli uccelli ma in qualche momento, quando pensi a qualcosa che farai il giorno dopo, oppure ascolti le zampette dei topi che raspano fuori dalla porta, quelle palline luminose non sembrano più così vicine. Vai in cerca degli occhi degli uccelli e non li trovi in giro per la stanza. Allora quelle palline, che non sono più gli occhi degli uccelli, sono altre cose. Questo va bene per la notte.