Ilaria Gianni: Dando per scontato che le scienze iconografiche e iconologiche non vadano perdute con il tempo, parliamo del tuo lavoro posizionandolo nel futuro. Il tuo apparato iconografico sarà fonte documentale utile alla ricostruzione dell’epoca che stiamo vivendo, per comprendere la dimensione socio-culturale dell’arte e del paesaggio stilistico odierno. Su questa sarà poi applicata un’analisi “iconologica” con l’obiettivo di approfondire l’indagine del contenuto o il significato culturale più profondo delle tue opere, ponendo in relazione la tua scelta iconografica con la tua personalità, con i principi filosofici religiosi, politici del tuo momento storico. Molti artisti hanno un piano iconografico programmato, a volte lineare. Per quanto i tuoi soggetti spazino e spiazzino, si intravede una certa coerenza narrativa, con riferimenti mai scontanti tra il reale e il mistico. Come stai sviluppando il tuo racconto e come dai vita ai tuoi soggetti, non solo in relazione al tempo presente ma anche in una proiezione dell’oggi nel museo del futuro?
Daniele Milvio: Come te, mi auguro che queste scienze abbiano vita lunghissima, ma da studioso amatoriale dell’evoluzione dell’iconografia – mi piace pensarmi discepolo di Baltrušaitis – non credo che si possano estrarre dati puntuali sulla società che ha prodotto uno stadio specifico dell’evoluzione iconografica. Possiamo però apprezzare l’appartenenza o meno dell’autore a una linea comune, a una coscienza storica. Non si tratta di dottrina, ma di sensibilità: la capacità di iscriversi all’interno di un gruppo di persone che hanno condiviso nei secoli una grammatica comune.
Ci tengo a precisare che questa non è una scelta passatista o tradizionalista, i topos sono quelli da sempre, topos appunto, e mantenere in uso un’iconografia originaria è una scelta utilitaristica, è scegliere scientemente di essere una moltitudine, scegliere di utilizzare una forza collettiva, studiata, storicizzata, ma ancora in attività. Mi rendo conto di sviluppare un luogo fisico più che un racconto, la totalità dei miei lavori potrebbe essere disposta in modo da costruire un quartiere non databile. Ci sono molti personaggi ricorrenti, tanti cambiamenti di stato, e tutto concorre allo sforzo comune verso l’atemporalità e l’autonomia. Il fatto che la massa dei miei soggetti sia praticamente una società assestante, con situazione politica e regole urbanistiche proprie, mi permette una certa organicità nell’espandere la mia iconografia. Nuovi sgherri si uniscono a vecchi sgherri, nuove strade, nuovi furti, nuovi carbonari, nuove stive, nuovi libri, nuovi incidenti; praticamente io non servo.
IG: Il caso ha voluto che questa conversazione prendesse avvio proprio il giorno in cui dovevo estrarre un dente molare. Mentre ero sdraiata sulla poltrona del dentista sigillata nel camice sterile, con qualche strumento tagliente in bocca, in un momento di acuto dolore non ho potuto fare a meno di pensare alle tue miniature entro sagome di denti, ai tuoi paesaggi immaginari e indipendenti. Mi chiedo chi siano gli abitanti di queste escursioni fantastiche, di questo mondo a tratti apparentemente delirante.
DM: Onoratissimo per l’associazione. Quelle cornici, sono nate in modo molto semplice. Inizialmente erano l’armatura di disegni che sentivo l’urgenza di mostrare, spesso a distanza di anni dalla loro produzione. Nella pratica del disegno, in virtù della sua velocità, si esercita la ricerca e lo sviluppo che l’avvicendarsi di sole opere finite rallenterebbe. È nel disegno che compaiono per la prima volta le novità iconografiche, e sempre nel disegno si manifestano quelle apparenti incongruenze evolutive che contribuiscono al rinnovamento genetico della pratica.
Singolare che tu mi stia parlando ora di denti, gli ultimi disegni che ho deciso di incorniciare sono molari, all’interno dei quali si svolgono scene di studio, risposo, appostamento. Tempo fa in un manoscritto ho visto alcuni disegni che illustravano abitanti figurati dei denti, in grado di prendere il controllo della mente del sofferente. Carie molto invasive, facile trovare aspetti di sensualità in un dolore tanto cerebrale.
IG: Si, celebrale mi sembra una descrizione appropriata. Utilizzerei il tema celebrale anche per definire il processo attraverso il quale elabori il tuo mondo di riferimenti. Una dimensione colta, complessa, stratificata che sembra trarre spunto – per citarne alcuni – dalla letteratura di Savinio e Strindberg (di cui vorrei parlassi), dalla visione di Massimo Bordin, dalla Carboneria, dalla filosofia di Tommaso Campanella e dal design di Duilio Cambellotti. Ermetico ma al contempo generoso, regali allo spettatore incursioni in queste realtà che scegli e riveli a tuo modo. Come si trasformano in linguaggio questi personaggi e perché senti l’esigenza di dare loro un nuova presenza?
DM: Più che il bisogno di dare loro una presenza (che già hanno vigorosa), sento di dovermi inserire nel loro solco, mi aiutano a dare profondità e struttura a pensieri che condivido con loro, ma che sono a volte troppo selvatici nella mia sola testa. Pensieri che per diventare produttivi hanno bisogno di aiuto. Il rischio è quello che conati tanto incontrollabili, mi spingano all’auto-sabotaggio. La lettura e la contemplazione del lavoro altrui mi aiuta a trovare slancio vitale in tensioni altrimenti troppo cupe e solitarie. La guerra civile tra l’insoddisfazione cronica, che mi spinge a fare quello che faccio, e la tendenza a considerare la pratica come un’attività intellettuale, produttiva, è il dramma irrisolvibile della mia condizione. Regolamentare è necessario, e lo studio funge da arbitro, mantiene attivo il dibattito tra le due fazioni, contiene i danni della lotta.
Inevitabilmente le mie letture e i miei miti influenzano il mio lavoro, e spesso mi trovo a preferire un mio pensiero nella formalizzazione altrui. Il legame è intrinseco, non si tratta di un omaggio, ma di una comunione di intenti. Un esempio perfetto è un libro di Strindberg a cui sono particolarmente affezionato, Ciandala, la storia di un maestro Svedese mandato in un territorio appartenuto alla Danimarca per anni, poi tornato alla Svezia. Il maestro, inviato con responsabilità quasi diplomatiche, si trova a dover trascorrere l’estate sul posto, intessendo una relazione tesissima con il guardiano della tenuta presso la quale aveva preso una camera in affitto. Il primo, un delicato e colto illuminista, il secondo, il guardiano, un uomo ambiguo, di una intelligenza distruttiva, peccaminosa, capace di far vacillare il maestro e la sua struttura mentale. Ne nasce una guerra aperta fra i due. La storia mi ha aiutato molto qualche mese fa a regolamentare alcune mie istanze sulle quali non avevo più controllo, nel lavoro come nella vita. La visione nitida di quella debilitante faccenda, illustrata dal genio inarrivabile di Strindberg, mi fece risparmiare tempo e salute, permettendomi un’analisi più distaccata.
IG: Il senso della vigilanza, dell’attenzione, dello sguardo su se stessi e sul mondo, sembrano essere vitali per il tuo lavoro, dove c’è una commistione di realtà e teatro dell’assurdo. Riesci ad accendere i riflettori sul limite dell’umano per oltrepassarlo. L’intensità feroce che trapela dai tuoi lavori mi ricorda un po’ il mito di Sisifo di Camus non tanto nelle sue premesse, quanto nelle sue conclusioni, con la sua idea di “libertà assurda”. Forse sono lontana dalle tue intenzioni azzardando questo parallelismo, però mi chiedo quanto le arti visive ti supportino in questo processo radicale di ritrarre una condizione di confine e di rottura. Quanto il disegno e la pittura ti aiutano a formalizzare l’estremità delle cose e l’assurdità che narri?
DM: La libertà assurda, la sopportazione, sono le cause dello slancio. Si manifestano in una sindrome dell’ostetrica, definibile in uno stato di veglia perenne e in una memoria prodigiosa, dedita unicamente alla registrazione di ogni manifestazione empatica della propria coscienza. Il terrore di perdere parte di questo archivio spinge alla trattazione, nel mio caso spesso pittorica, di tutto quello che ci ricorda momenti di consapevolezza utili a una sopravvivenza più sopportabile. Non credo però, devo aggiungere, che la predilezione che a volte ho avuto per la pittura abbia qualche altro senso se non l’accordo con le possibilità, le contingenze, i limiti strutturali, e la mia pigrizia. Il disegno è economico, la pittura è pratica, e ha un’’alta resa rispetto allo sforzo che al momento posso permettermi.
IG: Queste tue parole non possono non ricordarmi come Platone nel Teeteto racconti di come Socrate dichiari di avere ereditato il mestiere dalla madre ostetrica nel tentativo di far “partorire la verità”, attraverso la formulazione di domande opportune combinate all’uso della tecnica dell’ironia. L’alterazione ironica, spesso paradossale, della realtà è presente nella tua opera. Che valore ha l’ironia per te?
DM: L’ironia mi aiuta a scongiurare la minaccia più temibile della nostra pratica: il kitsch, ovviamente nella definizione di Hermann Broch. La sproporzione tra enfasi trattativa, mezzi, e contenuto – questa l’essenza del kitsch – la goffaggine di un eccesso empatico, sono tutte brutture che l’ironia può prevenire. Anche questa è una scelta utilitaristica. Dove l’autocritica vacilla l’’ironia previene.
IG: Se dovessi costruire la tua mostra di pittura ideale, chi includeresti? Dove dirigeresti il tuo sguardo da spettatore?
DM: La mia mostra di pittura ideale sarebbe, senza dubbio, una retrospettiva completa di Camille Corot, dai lavori giovanili all’ultimo, tutti. Sogno spesso di una simile mostra. Non mi avvincono le associazioni sapide tra autori, né quelle paradossali, tanto meno quelle che mirano a ridurre fenomeni in fenomeni di costume. Quello che chiedo a chi organizza una mostra è un lavoro di ricerca, l’occasione irripetibile di vedere delle cose prodotte in un ordine, nuovamente in quell’ordine cronologico. Più è ampio il lasso di tempo, più ampia la selezione di opere, più mi interessa una mostra, indipendentemente dall’autore. Per il resto, pur mantenendo una soglia di attenzione e curiosità molto alta, sono ripetitivo, ogni volta che passo da Londra vado a vedere Cosmè Tura, passo da Signorelli a Orvieto quasi ogni anno, alla scuola Dalmata di Venezia quando posso (ne ho numerose di queste tradizioni). Un tempo andavo molto spesso alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma, che amavo particolarmente, come tanto amo il Ritratto di Ungaretti dipinto da Scipione e la Malaria di Sartorio lì conservati. Ma è dal 2016 che non ci torno, vederla nello stato in cui versa ora mi darebbe un dolore insopportabile.