La pratica di Dario Guccio propone “idee figurate” come forma pura, secondo una dialettica di trasparenza e riflessione che sembra non potersi separare da una sovversiva ricerca del fondamento. All’interno di un percorso concettuale teso a condurre l’immagine al suo definitivo compimento, il disegno gioca con la stratificazione dei piani accentuando più che ridurre le tensioni interne al lavoro. Ritagliare, affiancare, sovrapporre, fissare: sono questi i gesti che, attraverso il senso degli incastri, aboliscono ogni orizzonte di totalità per sostituirvi degli artifici, dei possibili vettori di senso e identità.
A volte, il lavoro di Guccio muove da un’idea di monocromo che collassa su se stesso, è energia in contrazione più che in espansione, mentre il fondo della tela si moltiplica e si sovrappone sino ad assumere presenza e consistenza materiale. Altre volte, invece, un incomprensibile intreccio di necessità e innocenza, di essenzialità e purezza, alterna un rapporto di bicromia lasciando intravedere la possibilità di una narrativa. In entrambi i casi, i soggetti sembrano essere sull’orlo di una metafisica sparizione e si offrono alla lettura in una totale assenza di informazione spaziale. Sono soggetti che emergono dalla superficie fratturata del fondo, pur rimanendo a essa saldamente ancorati, e così facendo danno la possibilità di gestire dei piani. Tra lembo e lembo sgorgano allora relazioni, rotture e avvicendamenti, enunciati figurativi privati già in partenza di ogni immediata disponibilità di senso. Il colore del materiale, perfetto e spietato nella sua inconsolabile e artificiale purezza, codificato nella sua fantasmatica e pur realissima presenza, ci fa assistere all’annientamento di quell’orizzonte che trattiene forme altrimenti prigioniere.
In “Hammer, Chewingum, Evasion, Destruction”, prima personale di Guccio il cui titolo è un omaggio a Eugenio Barbieri, il tema del corpo è letto come un istante di possesso delle forme. La forma, infatti, vulnerabile e ingegnosa, si esprime per se stessa e a partire da se stessa, nello spazio intermedio dei piani a cui da vita. Via via che si scioglie dal fondo, essa diventa sempre più libera proprio là, dove lo sguardo l’accoglie e la raccoglie; non costituisce la traccia di un corpo, ma il tracciato a cui esso dà vita, sempre pronto a fare ritorno alla superficie da cui emerge. In alcune tele in mostra assistiamo a uno sciogliersi del soggetto sul piano, in altre l’immagine si sdoppia e si divide fisicamente, si accosta ad altri rimandi, cerca nuove aggregazioni.
In un nucleo di lavori precedenti, ampie superfici nere intitolate Notte stabiliscono una rete dinamica di configurazioni di energia e, al tempo stesso, dettano una lezione di tenebre. Emblema della sintesi universale, dell’assenza e della presenza di ogni cosa, dell’ambiguità dell’esistenza umana, nell’iconografia dell’antica Cina, il nero era il colore attribuito all’inverno e la sua direzione era il Nord. Era legato all’elemento dell’acqua, all’acqua della pioggia e il suo simbolismo ha dunque origine in un corpo incorporeo che si addensa sino a nascondere qualsiasi penetrazione alla luce. Ciò vuol dire che solo nella sostanza dei neri si trova la soluzione di tutte le cose che si fanno e che si disfanno ed è proprio in quella sostanza che l’immagine trova ora un vuoto da cui attirarci per potenza di illusione e da cui farci partecipare a un’esperienza artificiale.