Confesso che l’articolo di Massimo Minini, che si è rivelato nell’ultimo anno anche un ottimo scrittore, sul numero scorso di Flash Art (v. rubrica Maximo Moralia in Flash Art n°289) mi ha dato l’input per scrivere questa volta su Alighiero Boetti. Confesso che allora non avevo ancora deciso cosa scrivere per la mia rubrica, e sotto sotto forse cercavo un punto di ispirazione nelle parole di un gallerista che si è rivelato nell’ultimo anno anche un ottimo scrittore d’arte e non solo. Viceversa, il fatto che Massimo avesse scritto un articolo su Alighiero mi ha fatto pensare che forse avrei potuto scriverne uno anch’io e spiego subito il perché.
Da un lato ero debitore di un “occhio” su Boetti, perché negli articoli precedenti l’ho spesso citato e sapevo che prima o poi me ne sarei occupato, viceversa ciò che mi ha poi convinto a scriverlo ora è il fatto che Alighiero più di ogni altro abbia lavorato sul doppio e quindi la presenza di un “doppio” articolo su di lui sarebbe in linea con la sua poetica. Una poetica, quella di Alighiero e Boetti, che permea la ricerca dell’arte e della vita contemporanea forse più di ogni altro artista. Si potrebbe dire che tutti dobbiamo qualcosa ad Alighiero e viceversa qualcos’altro a Boetti.
Questo appare in tutta evidenza già da subito nel suo lavoro e nel suo essere che viceversa in Alighiero Boetti sono la stessa cosa, come già nel 1968 quando trasforma Alighiero Boetti in Alighiero e Boetti, sdoppiando il nome dal cognome, l’identità personale e amicale dalla categoria astratta del cognome familiare. Ma ciò non arriva e non prosegue a caso, perché prima ancora e dopo aveva fatto e farà opere che agiscono per coppie, tra cui: Ping Pong (1966), Gemelli (1968), Strumento musicale (1970), Rosso Gilera, Rosso Guzzi (1971), Ordine e Disordine (1973), Mettere al mondo il mondo (1972-73), Dare tempo al tempo (1982), Cinque per cinque venticinque (1988), di cui Alighiero e Boetti ci dicono: “Di fronte a queste coppie di concetti antitetici io penso che ogni cosa contenga il suo contrario […] ordinare una coppia o una classe di concetti, senza mai privilegiare uno dei due termini, ma al contrario cercando sempre l’uno nell’altro: l’ordine nel disordine, il naturale nell’artificiale, l’ombra nella luce e viceversa.”
Sono opere e concetti che ci dicono della varietà e della ricchezza del mondo di fronte alla quale Alghiero e Boetti mantengono un atteggiamento disponibile, non integralista e di possibilità della vita aperta. Un’opera e una vita aperta all’infinito che lo porteranno verso la fine a pensare e realizzare opere il cui fine ultimo è la smaterializzazione del corpo, come in due autoritratti a figura intera, uno realizzato e l’altro no, ma entrambi centrali dell’essere al mondo di chi ha voluto “mettere al mondo il mondo”. L’una, l’opera realizzata e molto nota, è una statua in bronzo, Autoritratto (1990), in cui Alighiero tiene in mano un tubo, sempre in bronzo, da cui esce l’acqua che va a depositarsi sulla sua testa riscaldata, trasformandola in vapore. Un modo per dire che il cervello fuma, metafora di un artista la cui mente è stata sempre in ebollizione, e difatti il titolo dell’opera completo è: Mi fuma il cervello, Autoritratto; viceversa, l’altra cosa di cui parla quest’opera è il corpo, ma soprattutto la faccia che per effetto dell’acqua calda si ossida, dandoci il ritratto di una persona corrosa dal male, il cancro, una malattia della quale le arti parlano poco, ma di cui questa è una delle testimonianze più riuscite.
Viceversa, l’altra opera, quella non realizzata, è un progetto del 1992 per “Territorio Italiano – Progetto d’Eternità per l’Arte Contemporanea”, per cui chiesi a diversi artisti di scegliere un luogo in Italia e progettare per esso un’opera che la scomparsa dell’artista causata dalla malattia sopraccitata non ha permesso poi di essere realizzata. Viceversa, si trattava anche qui di una scultura-autoritratto, da collocare in un grande prato verde a Spoleto, una silhouette-sagoma dell’artista che si tiene agganciato con una mano e i piedi a un’asta come una banderuola che viene fatta roteare intorno a essa dal vento, viceversa con l’altra mano tesa verso la terra disegna continuamente un cerchio ideale: un altro infinito modo di “mettere al mondo il mondo”.