Parlare della pratica di Elena Mazzi (Reggio Emilia, 1984; vive a Venezia), senza per forza ingabbiarla in una definizione, significa discutere delle sfide e dei temi affrontati da alcune forme di arte partecipativa o “context specific”. Del resto è l’artista stessa ad aver intrapreso un percorso che l’ha portata a collaborare con gruppi e istituzioni che, a vario titolo, promuovono forme di partecipazione civica, progetti di ricerca collaborativa, esperimenti di educazione alternativa e campagne di sensibilizzazione su temi sociopolitici – tutti accomunati dall’operare in un contesto peculiare, spesso periferico, sul quale agiscono intervenendo per affrontare le problematiche di gruppi sociali relativamente circoscritti. Mi riferisco ad esempio al collettivo di artisti Future-Farmers (San Francisco), alla Kunsthalle Botkyrka (Stoccolma), alla Fondazione Pistoletto (Biella), all’associazione e centro studi Connecting Cultures (Milano) e alla residenza a cadenza annuale Guilmi Art Project (Guilmi, CH); ma anche ad alcuni artisti quali Antoni Muntadas e Marjetica Potrč, entrambi incontrati mentre Mazzi era studente presso lo IUAV di Venezia.
Quando racconta di sé, Mazzi spesso riferisce della sua fortunosa presenza all’Aquila durante la notte del terremoto del 2009. Da quell’esperienza l’artista ha intrapreso una lunga e costante ricerca che l’ha condotta ad indagare le situazioni di crisi (intese nei loro vari aspetti sociali, economici, politici e geologici) e le conseguenti capacità dei soggetti coinvolti di superarle – in altre parole, forme di resilienza e modelli di riorganizzazione della vita quotidiana a partire da fenomeni di rottura. Resilienza è un termine spesso abusato nell’ambito di pratiche artistiche collaborative, laddove spesso si tende a concepirle come capaci di sanare fratture, di risollevare fenomeni di degrado sociale, di favorire processi di aggregazione e well-being. Piuttosto questi sono alcuni degli effetti collaterali che possono certamente verificarsi, ma che è errato individuare come obiettivi primari e istantanei. Il lavoro di Mazzi si concentra sullo studio del rapporto tra uomo e territorio e sui processi identitari che ne scaturiscono; in particolare, l’artista indaga gli aspetti affettivi e relazionali delle comunità incontrate, il legame che esse stabiliscono con il contesto e le tradizioni, le loro narrazione e le modalità di veicolazione di memorie. Più che agire per risolvere contrasti sociali, politici e ambientali , nel tempo, Mazzi ha costituito un atlante di casi in cui processi di resilienza si sono innescati naturalmente. È nella quotidianità che in maniera naturale – anche se con sforzi non indifferenti – le comunità risolvono i propri conflitti. Semmai il contributo di Mazzi consiste nell’invitare i protagonisti a raccontarsi, re-impastando fatti reali con nuove visioni, per provare ad amplificare processi di presa di coscienza già in atto.
L’opera Reflecting Venice (2012-14), ad esempio, indaga il rapporto tra nuove tecnologie e tradizioni artigianali sullo sfondo delle problematiche ambientali che affliggono la Laguna di Venezia. Utilizzando il modello dello Specchio Lineare II, un accumulatore di energia ancora in fase di sperimentazione che potrebbe sostituire i pannelli solari, l’artista ha costruito una complessa installazione di specchi. Su di essi ha fatto incidere elementi vegetali, grazie alla collaborazione con una delle pochissime ditte di mastri vetrai che ancora utilizza la tecnica, ormai in estinzione, dell’incisione su vetro. Le specie floreali rappresentate, però, non sono quelle comunemente in voga nelle decorazioni del vetro, ma riguardano le varietà in pericolo d’estinzione a causa dello sfruttamento della laguna e del controllo dei flussi di maree.
Spesso nei progetti artistici che promuovono forme di collaborazione, il riferimento all’arte appesantisce i rapporti, crea una distanza, insospettisce gli interlocutori. Per questo motivo, con regolarità le azioni portate avanti in questo ambito, vengono descritte per il loro valore intrinseco, senza per forza dover ricorrere a una definizione – quella di “arte” appunto – che richiama, nella mente di molti, forti componenti corporative, professionalizzanti e autoreferenziali. Forse non nominare l’arte è una forma di disturbo alla morale di quello stesso sistema -distributivo. O forse evitare di parlarne, è una forma di emancipazione necessaria per accrescere i propri orizzonti e provare a imparare qualcosa nell’ascolto e nel dialogo con gli altri (tutto questo senza mai dimenticare come, invece, in contesti di oppressione, censura, controllo o emarginazione culturale, invocare l’arte abbia un significato politico di rottura ben preciso e necessario). A Guilmi, un paesino di poche anime sulle montagne dell’Abruzzo, ad esempio, Mazzi ha parlato lungamente di magia, culti, ricette di guarigione, malocchi, superstizioni e altre leggende con gli abitanti del luogo, senza per forza invocare l’arte. Invitata come artista in residenza presso Guilmi Art Project, Mazzi ha quindi affrontato un tema alquanto spinoso per il luogo, perché facilmente etichettabile come folkloristico: quello delle credenze e dei riti di magia pagana. Operando su due fronti, l’artista ha contribuito ad ampliare il mistero di tutte le storie raccolte: da una parte ha costruito nuove narrazioni che inglobavano le precedenti fino a renderle verosimili; dall’altra, con l’aiuto del fotografo Andras Calamandrei, ha realizzato dei tableaux fotografici che rappresentano in forma astratta i segreti collezionati sul territorio. In un’immagine (dal progetto Avanzi, 2015), per esempio, si intravede una donna piegata sui sassi di una frana come se stesse cercando di medicare la terra, così come le donne del luogo curavano la risipola [un’infezione acuta della pelle n.d.r]. A conclusione di questo processo, l’artista ha poi organizzato una performance nel paese coinvolgendo lo speaker delle feste locali per declamare via megafono le storie inventate. Tutte queste vicende e formule rappresentano come degli “avanzi” (titolo del suo intervento a Guilmi e traduzione in dialetto abruzzese di una pubblicazione dell’antropologo Emiliano Giancristoforo), dei micro-residui o rimasugli marginali della tradizione e della storia del luogo, che si mischiano e si rimpastano con teorie e prassi della vita quotidiana e mutano il modo di pensare e di vivere il proprio contesto. Molto simile a questo progetto è il lavoro I Am Talking to You” (2016), una serie di registrazioni che l’artista sta compiendo presso le abitazioni private di alcuni cittadini di Helsinki mentre interagiscono con televisioni, radio e computer ascoltando il telegiornale. Sospiri di rassegnazioni, commenti sarcastici, urla di disapprovazione sono solo alcune delle reazioni che possono suscitare i notiziari. Come di consuetudine l’artista si muove frequentando alcuni componenti delle comunità locali, quasi in disparte, ascoltando molto e chiedendo con cautela. Per riuscire a entrare nello spazio domestico di sconosciuti in un paese come la Finlandia nel quale la sfera pubblica e quella privata sono tenute ben a distanza, con l’intento di riprendere le persone in un momento nel quale si lasciano andare a comportamenti e commenti spontanei, Mazzi ha tralasciato ogni riferimento al tema dell’arte, per concentrarsi sul sentimento di frustrazione che si prova di fronte a notizie che ci rendono spesso impotenti.
Osservando da vicino la pratica di Mazzi sembra di entrare in un atlante di micro-biografie di personaggi non famosi. Nei testi di commento alle sue opere si fa spesso riferimento a un’analisi antropologica o a un approccio etnografico, senza considerare quanto il suo lavoro possa considerarsi più simile a quello di una biografa di esistenze non illustri (per adottare una definizione dal libro di Giuseppe Pontiggia, Vite di uomini non illustri, Mondadori, Milano, 1993). Le prime due definizioni non sono del tutto fuori luogo, ma si riferiscono a un precedente artistico ben preciso (Joseph Kosuth, The Artist as Anthropologist, 1975) o piuttosto conducono verso discipline scientifiche. Per diventare biografo, invece, è sufficiente essere curioso nei confronti dell’altrui esistenza.
Villa Unda (2011), per esempio, è un booklet di immagini, disegni, note e descrizioni redatto con la popolazione di Onna, uno dei comuni più colpiti dal terremoto dell’Aquila del 2009. Attraverso questo lavoro, Mazzi ha rilevato come abitudini e abilità degli abitanti fossero ancora esercitati nel contesto abitativo post-terremoto. Un modo per auto-narrarsi, ma anche per generare un processo di comprensione tra il prima e il dopo, tra l’evento traumatico e lo scorrere della quotidianità. Elementi e racconti ancora più importanti perché non si tratta di attività specialistiche o scientifiche, quanto piuttosto di abitudini legate ai costumi e agli spazi del contesto locale. Una raccolta di elementi che da soli basterebbero a comprendere una vita intera, dove tracce di memoria si mischiano a un cambiamento che non è solo spaziale, ma anche sociale e culturale.
Nel 2013 invitata presso la Residenza di Dolomiti Contemporanee a Cortina d’Ampezzo, l’artista ha realizzato il lavoro Ampezzania Incolarumcardium nel quale ha chiesto ad alcune famiglie di “regolieri” locali (in dialetto gli amministratori della terra) di custodire per un giorno soltanto, alcuni fossili provenienti dal locale Museo Paleontologico Zardini. I partecipanti hanno collocato i fossili tra i loro oggetti personali – tra una collezione di scarpe con il tacco, in mezzo ad alcuni cuscini di merletti, in piedi tra alcune bombe, oppure adagiati tra i pomodori secchi – e li hanno fotografati, come per ricollocarli nella loro vita quotidiana.
Forse le visite di Mazzi alle numerose comunità descritte, possono essere lette come un atto d’incitamento e di motivazione; oppure semplicemente come un elogio della dignità delle esistenze ordinarie, nella cui narrazione elementi straordinari o fatti eroici non trovano spazio.